I quattro poliziotti, tra i quali uno è una donna, detenuti in Messico per la sparizione nello stato di Jalisco dei tre napoletani scomparsi dal 31 gennaio scorso saranno sottoposti a processo. Questa la decisione della Fiscalía General de Justicia, in pratica la pubblica accusa, che ha stabilito di perseguire i quattro agenti per sparizione forzata, sottoponendoli nel frattempo, con provvedimento inconsueto, a un anno di detenzione preventiva.
Secondo il codice penale messicano, i quattro, di cui le autorità hanno solo divulgato i nomi di battesimo e l’iniziale del cognome, potrebbero, se ritenuti colpevoli, essere condannati a una pena massima di sessanta anni di prigione. Queste in breve le ultime notizie sul caso del sessantenne Raffaele Russo che, assieme al figlio Antonio e al nipote Vincenzo Cimmino, sono stati visti per l’ultima volta a Tecalitlán, una cittadina dello stato messicano di Jalisco.
Come si ricorderà, il caso fu denunciato in Italia dai parenti degli scomparsi, il che ha permesso che alla vicenda s’interessassero le autorità diplomatiche in Messico, messe in allarme dal clamore suscitato dalla stampa del nostro paese.
A respingere ogni accusa che da ambienti messicani sono state inizialmente mosse a Raffaele Russo (tra le altre, quella di aver utilizzato documenti falsi durante la sua permanenza nel paese americano) si è incaricato Francesco, un altro figlio del venditore ambulante scomparso.
Nelle recenti interviste a Rai Uno e al quotidiano la Repubblica, Francesco Russo ha respinto ogni illazione riguardante un coinvolgimento del padre e degli altri componenti della sua famiglia nel narcotraffico. Un fatto che inizialmente era stato ipotizzato per spiegare l’interesse dei cartelli della criminalità organizzata messicana nei confronti dei tre italiani, la cui attività ufficiale nel paese era quella di venditori ambulanti di generatori elettrici di fabbricazione cinese.
Ad aumentare l’aria di mistero che sembra circondare la vicenda dei tre napoletani c’è anche che il loro non è il primo gruppo di napoletani che negli ultimi anni sono spariti in Messico, né il primo il cui destino è legato alla vendita di generatori di luce.
In questi giorni alcuni quotidiani messicani riprendono un articolo di Luisiana Gaita apparso su Il Fatto Quotidiano nel quale è ricordato che anche il ventunenne Ciro Poli, nato a Ponticelli, commerciava in generatori di luce a Monterrey, e il suo cadavere è stato rinvenuto carbonizzato il 5 novembre del 2013 all’interno della sua vettura.
E solo un anno dopo, come scrive sempre Gaita, esattamente il 1 ottobre del 2014, è sparito anche il trentaseienne Roberto Molinaro. Emigrato in Messico per vendere pure lui generatori elettrici. Scomparso senza lasciare traccia a Veracruz. Dell’uno come dell’altro caso non risulta che siano stati rintracciati i colpevoli.
Casi non infrequenti in un paese come il Messico, in cui la corruzione e l’infiltrazione delle forze di polizia da parte della delinquenza organizzata è un fenomeno esteso e fa sì che il paese sia agli ultimi posti nelle graduatorie internazionali in fatto di trasparenza e legalità.
Una situazione che è anche andata peggiorando con il governo del presidente Enrique Peña Nieto, che ha permesso ai cartelli del narcotraffico di sviluppare una sorta di stato nello stato, rendendo palpabile e diffusa nel paese la sensazione che ogni reato commesso contro chi denuncia questa situazione, rimanga assolutamente impunito.
Sarà sufficiente qui ricordare che durante l’amministrazione di Peña Nieto ben quaranta sono stati i giornalisti assassinati, e che il 2017 si è chiuso con l’omicidio di dodici reporter, la cifra più alta degli ultimi tempi. Mentre l’anno che si è appena aperto registra già tre omicidi.
Può essere quindi facilmente spiegato perché questa situazione renda il Messico il paese con maggiori agguati mortali contro giornalisti e contro l’informazione indipendente, rei di squarciare i veli del malaffare e dei traffici che vivono all’ombra di connivenze. Una situazione che nella campagna elettorale per le presidenziali, attualmente in corso (il paese andrà al voto il 1 luglio) ha fatto sì che il tema della corruzione degli organismi statali sia al centro delle proposte politiche delle forze del cambiamento.
Secondo i dati del bollettino “Libertades en Resistencia” divulgato nel 2017 dalla sezione messicana di “Articolo 19”, il 99,7 per cento delle indagini avviate per aggressione a giornalisti rimane inconcluso e i colpevoli impuniti. Di 798 indagini iniziate dal 2010, la Fiscalía Especial para la Atención de Delitos contro la libertà di espressione ha risolto solo tre casi.
Questi i numeri che si commentano da soli e che rendono improcrastinabile da parte del mondo politico e della società messicana una seria riflessione che porti a una terapia shock che possa almeno spingere il paese a cominciare a invertire la tendenza.
Ed è stato probabilmente merito della grande mobilitazione che si è registrata in Italia a seguito della sparizione dei tre napoletani, che per certi versi potrebbe forse ricordare il caso di Giulio Regeni, e del successivo pronto intervento delle nostre autorità diplomatiche nel paese, se gli inquirenti messicani hanno trasferito i quattro già da mercoledì scorso a Guadalajara per essere interrogati. Dal canto suo, il capo della polizia di Tecalitlán, da cui dipendevano i quattro arrestati, Hugo Enrique Martínez è sparito da mercoledì scorso, tanto che gli inquirenti non escludono una sua partecipazione all’accaduto.
Così, davanti al giudice inquirente Raúl Sánchez Jiménez [nella foto in alto], che ha condotto gli interrogatori, gli arrestati hanno ammesso di aver fermato i tre italiani perché un non meglio identificato gruppo di delinquenza organizzata gli aveva chiesto che glieli consegnassero. Ottenendo in cambio come compenso la somma di 43 euro.
Un’ammissione che forse è il primo frutto del trasferimento a Guadalajara, deciso con tutta probabilità per consentire uno svolgimento delle indagini più sereno e soprattutto al riparo da possibili inquinamenti ambientali in una città in cui il cartello che predomina, Nueva Generación, ha acquisito molto potere negli anni recenti. E inoltre lontano dalle possibili protezioni che ai quattro accusati potrebbero venire dagli stessi ambienti della polizia della loro città di origine.
Un primo piccolo passo in un’inchiesta in cui sembra si navighi a vista, e dove il giudice che conduce le indagini, nel corso della conferenza stampa, non ha saputo precisare se i tre napoletani siano in mano di detto cartello o di altri.
Per il momento la ricerca continua con l’ausilio di cani addestrati alla localizzazione dei corpi. Il che conferma che il caso pare prestarsi a ogni epilogo, ivi compreso il peggiore.

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