Come riconoscersi, in questo tempo in cui tutto deve essere rigorosamente oggettivo e farne parte per sentirsi rassicurati? A volte mi pento di avere abbandonato la collezione di francobolli che facevo da bambino; averla oggi e continuare a raccogliere pezzi per completarla, sarebbe stato come coltivare ogni giorno un amore divenuto rasserenante, un desiderio aperto al futuro e coltivare l’utopia di una fine… infinita. Al modo del regista italo-argentino Fernando Birri, che identificava l’utopia con l’orizzonte irraggiungibile della pampa che ha solo la funzione di farti camminare, che è un po’ come continuare ad amare.
Ma se l’inquietudine e il desiderio ti accompagnano ancora, ti può accadere di incontrare Jacopo Terenzio o di incontrare le sue Poesie globali di amore e disgregazione o anche le sue Piccole cronache Veneziane piene di tempo o i suoi tarocchi che possono essere nei posti più impensati.
E ti può anche accadere di essere invitato a casa sua dove lui ti mostrerà un suo ordine del mondo in cui si specchia e si riconosce.
E ti può addirittura accadere di pensare a Narciso mentre lui ti parla con garbo – Jacopo parla sempre con garbo – dell’origano che ha in terrazza o del vino che non conosci che ha portato da un posto che non conosci e che però ha un sapore che ti ricorda qualcosa che ti piace e ti permette di riconoscerti.
La poesia è come un procedimento per dare il nome alle cose o anche per cercare il nome delle cose o, in modo rilkiano, di dire quello che le stesse cose non sanno. Ma da dove viene quel nome, dove cercarlo oltre la quotidianità del libro o del piatto o del fiore che camminano con un nome ben chiaro che li identifica? È il tema della poesia, un mondo in cui le cose non sono un dato del loro apparire codificato, ma della loro sostanza relazionale, di ciò che riescono ad essere oltre il loro codice programmato, in una dimensione che ne rivela le valenze appunto nella varietà del sistema relazionale.
Il nome e la cosa non fanno parte di un’identità comune, credo. E credo che una cosa possa non tanto avere più nomi, ma essere “trovata” e descritta con più nomi, con tutti i nomi delle possibili relazioni.
La verità delle cose è nelle cose stesse, è un dato immanente alle cose, verum ipsum factum, diceva Vico, e la poesia e l’arte in genere, l’azione cosciente, arbitraria e soggettiva, provvedono a renderla evidente, a darle un nome.
Dare il nome alle cose, significa quindi rendere evidente la loro verità, scoprire ciò che è alla radice della cosa in senso vitale e ciò che rende possibile tale evento è la coscienza che provvede a stabilire il vincolo, la relazione con la cosa. Ed è buona definizione quella di Plotino che nelle Enneadi scrive
l’occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un’anima vedrebbe il bello se non fosse bella.
In questo gioco del riconoscersi colloco Narciso e quello che vorrebbe essere un suo elogio, mentre Jacopo Terenzio osserva immobile sullo sfondo. Ed è come la mia collezione di francobolli che era un cammino possibile, ma pur sempre un cammino, e ciò che mi diceva “è buono o è bello” in questo tempo dell’oggettività che si impone come una verità in cui non è possibile riconoscersi per quanto oggettiva, e per quanto verità.
Il Narciso si consuma non potendo essere nello stesso tempo soggetto e oggetto dell’amore e muore, non dell’amore che ha di se stesso, ma perché non può amarsi, essendo bellezza. E se il Narciso del nostro tempo fosse il portatore del culto del valore anche nel rischio celebrativo della superbia autoreferenziale?
È qui che trovo il poeta Jacopo Terenzio, mentre cerca i nomi della poesia in quella posa che annuncia nel suo biglietto da visita:
Bisogna sempre avere un vestito adatto per eventi inaspettati, l’amore, la morte, la rivoluzione.
Perché Jacopo viaggia nel mondo un po’ inventandolo, un po’ cercandolo, ma sempre convinto di dover rendere evidente come ne fruisce gioiosamente abbellendolo ed evitando in tutti i modi di offenderlo.
Perciò Jacopo si colloca in una qualche eleganza che appartiene alle cose proponendole in una ritualità che le rende sacre e in una sequenza che cerca di stabilire un ordine almeno temporale.
Egli vive in una casa in cui ci sono specchi che sono fatti soprattutto di cose in cui si riconosce: pagine manoscritte, frammenti, pile di libri mai disposti a caso, luoghi destinati a una qualche rappresentazione della vita. E ho pensato – ho vissuto la situazione – che la sua casa risponda a un criterio che tende a fissare valori, segni di riconoscimento in cui ritrovarsi e amarsi in un mondo che ti obbliga all’isolamento, a stare con le tue cose se ancora vuoi continuare a credere. E a camminare.
Ed è come rileggersi nelle ragioni che muovono lui e aiutano te a leggerti nell’angolo dello scrittore, in quello del poeta, in quello del gusto o negli odori dell’origano che inondano la terrazza. Mentre il vino attende, ben disposto, in cantina secondo un criterio che ne esprime la qualità e forse anche la provenienza, insomma in un ordine che gli permette di essere sempre preparato per ciò che può accadere e che comunque non lo troverà nel posto sbagliato e nell’abbigliamento sbagliato.
Nel Narciso del mito c’è l’esaltazione di una bellezza fine a se stessa e quindi contemplativa, passiva e mortale, ma anche il richiamo al senso relazionale delle cose e al loro nome necessario.
In La genealogia della morale Nietzsche mostra appunto l’esaltazione che si vorrebbe in Narciso, di un se stesso senza altre passioni, di una specie di dio offeso che si ritira risentito, ma impotente, una visione che suggerisce però agli inquieti a uscire dall’impotenza per non morire.
È questo il Narciso che mi piace vedere in Jacopo Terenzio: una figura che invita a ritrovare la propria bellezza nelle cose che egli ama e che continua ad amare e che gli permettono di riconoscere una propria bellezza in cui vivere e non consumarsi.
Ed è un Narciso che mostra il collo e, come ogni poeta, non si ripara dalla possibilità di essere azzannato e lo è non tanto perché vuole apparire bello o perché si ritiene tale. Potrebbe anche essere così, ma bisogna dare atto al poeta che egli compie un passo generoso che dà visibilità a ciò che ama e che altrimenti si perderebbe in un’oggettività indeterminata che annulla differenze e valenze.
E in questo mettere se stesso e le cose in vetrina, ci si può anche vitalmente riconoscere.
Città del Messico, 2 marzo 2018

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