Giornata tragica ma istruttiva, quella di lunedì. Hanno vinto due partiti populisti, apparentemente diversi ma in realtà vicini. Oltre al Pd, per il quale non basta dire che ha perso (c’è una ricostruzione da fare dalle fondamenta), ha perso tutta la sinistra, in modo vistoso. Ha perso anche Forza Italia, che avrebbe dovuto essere la forza trainante della coalizione di centrodestra. È stata voluta una legge elettorale proporzionale (della correzione uninominale e dei suoi danni si dirà a parte), ma le forze politiche continuano ancora a proporsi come si fosse nel maggioritario.
Nel proporzionale, in cui le elezioni non scelgono un governo, le forze politiche debbono trattare per dimostrare di avere il consenso di chi siede in parlamento per formare una maggioranza. E queste trattative hanno sempre seguito la logica degli accordi tra chi è politicamente più vicino, non più lontano, per cultura politica e programma. I “capi politici” di ciascun partito o schieramento non necessariamente sono i migliori soggetti per la carica di presidenti del consiglio, dato che ciascuno deve attenuare le proprie caratteristiche per consentire la conclusione dei necessari accordi politici. Così è stata la storia della prima repubblica e così sarà inevitabilmente anche ora.
Un’altra conseguenza del proporzionale con cui abbiamo votato è che le alleanze contratte per la conquista dei seggi uninominali hanno scarsa rilevanza ora, quando si tratta di formare un governo. Contano i partiti. Tanto più in questo caso, in cui le differenze politiche tra Salvini e Meloni da un lato e Berlusconi dall’altro, sono state gravi ed evidenti. Giustamente Brunetta dal suo punto di vista continua a insistere che la coalizione di centrodestra è la meno distante, in seggi, dal raggiungere una maggioranza di governo, e deve quindi ricevere l’incarico. Senonché, purtroppo per lui, contano di più – in un sistema proporzionale – le affinità e le discordanze politiche. È già così nelle valutazioni post voto che si stanno facendo. Ed è così che ragionerà il Presidente Mattarella, il quale attenderà che siano le forze politiche a riconoscersi tra loro come affini e a provare a formare una maggioranza di governo.
Se vi sono dei chiari vincitori, vi sono anche dei chiari sconfitti. Il Pd anzitutto, che ha governato – sia pure con un’alleanza spuria – dalle elezioni “non vinte” del 2013 a oggi e ha aiutato l’Italia a uscire da una situazione disastrosa, ma non è stato apprezzato dagli italiani, né come partito, né come governo. Il caso Minniti, che non ha vinto il seggio in cui era candidato nonostante sia stato uno straordinario ministro degli Interni, è emblematico. Si può anche aggiungere che la sconfitta netta di tutta la sinistra è solo in parte dovuta a fatti recenti (a cominciare dall’improvvida scissione), facendo parte di un trend europeo sfavorevole su cui si dovrà riflettere in profondità. Il cambiamento è netto e radicale. Non si profila un’alternanza alla vecchia maniera (e non solo perché l’attuale legge elettorale la rende impossibile).

Tra i vincitori di queste elezioni, il Movimento Cinque Stelle. Su Twitter, Luigi Di Maio pubblica la foto del suo abbraccio con Beppe Grillo e scrive: “Inizia la #TerzaRepubblica, la Repubblica dei Cittadini”.
Se i vincitori sono chiari, nessun partito preso singolarmente ha la maggioranza per governare. E quindi? Si potrebbe cominciare con l’escludere che si possa proporre un governo di cui faccia parte il Pd, che è stato sonoramente bocciato.
Non resta che un governo dei due vincitori dunque, con o senza Forza Italia, dato che i seggi sono sufficienti anche se collaborano al nuovo governo soltanto Di Maio, Salvini, Meloni. A parte, l’ipotesi del governo di scopo per una nuova legge elettorale; a parte, perché qui non ne parliamo.
È questo il passaggio cruciale oggi, per il Pd. La scissione e gli effetti della scissione appartengono già al passato. Ora il tema è: si è disponibili a un’alleanza per consentire la formazione di un governo, con Di Maio da un lato e con Liberi e uguali dall’altro? Oppure mai con i populisti, gli estremisti, coloro che ci hanno dato dei corrotti e degli assassini? Come ha dichiarato Renzi, che cederà lo scettro di segretario soltanto a un successore eletto come lui con le primarie.
La questione è abbastanza complessa: le ragioni politiche e istituzionali per lasciare il Pd fuori dalle alleanze di governo ci sono tutte e le abbiamo sopra accennate. Ma è possibile che da un punto di vista istituzionale l’idea di un governo M5S – Pd sia considerata meno traumatica – una sorta di passaggio soft verso il nuovo. Dal punto di vista del Pd si può aggiungere che un partito che ha bisogno di ripensarsi ab imis non si assume responsabilità di governo, tanto più con un alleato – Di Maio – che costituisce un’incognita sotto tutti i profili, come è un’incognita il ruolo che in quelle condizioni potrebbe essere svolto dal vituperato Pd. Per contro entra in campo qui la valutazione che si dà del M5S. Dei suoi rapporti con i principi democratici, per esempio, e con l’Europa, che solo adesso Renzi considera l’idea forza che avrebbe potuto essere messa in campo se si fosse votato nel 2017. E la strategia che si pensa di utilizzare nei confronti di quella parte della base dei cinque stelle che prima votava Pd. Sorreggere un governo cinque stelle, svolgere il ruolo di badante, condizionarlo, dimostrare che non si è così diversi? Recuperare così una parte dei consensi traslocati nei cinque stelle? Mah.
Archiviata la segreteria Renzi anche se le sue dimissioni sono a termine, la frattura strategica interna al Pd e condivisa con LeU sta tutta qui. La battaglia contro Renzi perché si dimetta subito è la battaglia se sì o no all’accordo di governo con i cinque stelle (che mi rifiuto comunque di chiamare inciucio). Potrebbe addirittura avvenire una nuova scissione/ricomposizione. I renziani da un lato, quel che resta del Pd e i bersaniani dall’altro. Non per nulla Renzi ha annunciato la nascita della sua associazione. Chi vivrà vedrà.

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