Hollywood crede alle lacrime e premia la diversità. Crede, in particolare, alle lacrime d’amore della giovane Elisa, l’inserviente muta che strappa dalle grinfie della Cia il mostro anfibio dal cuore tenero de La forma dell’acqua (The Shape of Water), già Leone d’oro a Venezia. Ecco premiata la diversità di una favola ambientata negli anni della Guerra fredda ma dalle valenze universali, e dunque anche odierne, un fantasy dove le robuste ambizioni etiche sovrastano persino le convenzioni di genere che avvolgono mirabilmente il film.
Quattro statuette, tra cui miglior film e miglior regia, laureano Guillermo del Toro, che da buon immigrato non smette mai di ricordare le sue origini (“Da ragazzino, in Messico, non avrei mai pensato di farcela e invece eccomi qua”), trovando il modo di indicare, specie ai nuovi registi e alle prossime generazioni, quel potere della fantasia che, forse esso soltanto, può consentire oggi di leggere con un pizzico di ottimismo la realtà. Per buoni intenditori, su entrambe le sponde degli oceani. E non si parla soltanto di american dream.

Quattro statuette, tra cui miglior film e miglior regia, laureano Guillermo del Toro e il potere della fantasia.
Ancora la diversità fa da filo conduttore a più di un film giunto quest’anno al massimo riconoscimento degli Oscar. I due premi attribuiti al film d’animazione Coco, targato Pixar e magistralmente ambientato in quelle stesse contrade da cui viene Guillermo, profondamente intriso di “messicanità”. La miglior sceneggiatura non originale riconosciuta al James Ivory di Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, adattamento cinematografico del romanzo di André Aciman, un romanzo di formazione dalle sfumature bucoliche, in una bassa padana anch’essa un po’ favolistica, ma saldamente ancorato alle ragioni di un sentimento non omologabile, diverso per l’appunto. Infine l’Oscar per il miglior film straniero al cileno Una donna fantastica di Sebastián Lelio, che viene dalla scuderia di Pablo Larraín. Protagonista Daniela Vega, ovvero Marina, una donna trans che, alla morte del compagno, si vede perseguitata dalla famiglia del defunto per il solo fatto di esistere, restando una presenza inaccettabile ai loro occhi.
Detto che anche altri riconoscimenti non fanno una grinza (per dire: il gigantesco ma umanissimo Winston Churchill donatoci da Gary Oldman in L’ora più buia, miglior protagonista maschile; l’Oscar per il non protagonista a Sam Rockwell; quelli “tecnici” a Dunkirk), le cronache narrano di una cerimonia non particolarmente brillante ma neppure turbata dai penosi incidenti della scorsa edizione. Stessi interpreti, peraltro, Faye Dunaway e Warren Beatty, ma evidentemente vaccinati e senza imbarazzanti scambi di buste. D’altronde, dopo l’affare Weinstein e tutto quel che ne è seguito, un plus di sobrietà ci stava. Fortuna che a un certo punto premiano la bravissima Frances McDormand di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (migliore protagonista femminile), che ne approfitta per scaldare la sala e motivare le truppe: “Mettetevi comodi perché ho un po’ di cose da dire”. E, rivolgendosi alla platea, dice che loro – le donne – di cose da dire e da fare ne hanno molte:
Tutte abbiamo storie da raccontare e progetti da finanziare. Non parlateci di questa cosa alle feste di stasera. Invitateci nel vostro ufficio tra un paio di giorni o venite nel nostro, come credete meglio, e vi diremo tutto. Ho due parole prima di lasciarvi stasera, signore e signori: INCLUSION RIDER.

La bravissima Frances McDormand scalda la sala con il suo discorso durante la premiazione.
Nel sindacalese di Hollywood pare che l’Inclusion Rider stia per una clausola contrattuale a salvaguardia di coloro che partono meno garantiti nella produzione di un film, donne e neri compresi. Nel lessico spiccio della McDormand diventa una sorta di quarto manifesto a Ebbing ed equivale a suonare la carica. Insomma, Hollywood crederà pure alle lacrime, ma la lotta è ancora lunga.