“Sessantotto, luci e ombre”. Conversando con Benjamin Stora

A cinquant'anni dall'anno spartiacque del Novecento si può fare un bilancio, pensando all'oggi. Ne abbiamo parlato con uno storico di fama, che fu negli anni Sessanta e Settanta un attivista politico
MARCO MICHIELI
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Benjamin Stora mi accoglie alla Cité nationale de l’histoire de l’immigration, dove si trova l’omonimo museo del quale è direttore dal 2014. Stora è uno specialista della storia del Maghreb contemporaneo e professore all’Università di Parigi XIII. Una vera e propria autorità sulla guerra d’Algeria.
Ma è anche stato un militante politico durante gli anni Settanta e Ottanta. Nel suo libro di prossima uscita, “68, et après. Les héritages égarés” (Editions Stock), Stora torna sulle vicende del Sessantotto attraverso il racconto della propria storia: l’adesione al trotzkismo, poi l’ingresso nel 1986 nel Ps, gli incontri con Jean-Luc Mélenchon, Lionel Jospin e altri.

Abbiamo parlato con lui dell’eredità del Sessantotto e delle sfide che la sinistra oggi si trova a fronteggiare.

Professor Stora, le commemorazioni rischiano sempre di creare molta confusione, soprattutto quando le memorie sono divergenti. Nel caso del Sessantotto è sempre difficile fornire una sintesi degli eventi che non sia caricaturale. Che resta quindi oggi del Sessantotto?

Il Sessantotto è stato innanzitutto un evento mondiale che non ha interessato soltanto la Francia ma anche molti altri paesi europei. Anche l’Italia e la Germania Ovest si confrontarono con una mobilitazione giovanile di massa. E a livello internazionale le proteste che scossero gli Stati Uniti sono state molto importanti.
Anche in Africa ci furono dei movimenti di mobilitazione significativi. Da parte di certi intellettuali africani fu l’inizio della presa di coscienza di una colonizzazione mancata, non riuscita. Si interrogarono in particolare sul percorso che aveva portato dall’uscita dal sistema coloniale alla successiva creazione di regimi a partito unico e di sistemi politici autoritari.
Fu dunque una vera “rivolta” mondiale che ha lasciato delle tracce in tutte le società.

Quali sono queste tracce?

Il rifiuto dei sistemi autoritari per prima cosa. Fu lanciata una sfida alla struttura dello stato che allora era inaccessibile. Uno stato che funzionava senza alcuna trasparenza e senza rendere conto ai propri cittadini. La volontà di riappropriarsi degli strumenti della cittadinanza attiva è stato uno dei tratti caratteristici più importanti del Sessantotto.
In secondo luogo, dobbiamo considerare tutta una serie di “liberazioni” che hanno fatto seguito al Sessantotto. La liberazione nel mondo del lavoro, con lo sviluppo del sindacalismo operaio e la comparsa delle sections syndicales, soprattutto in Francia dove non esistevano (ndr, le rappresentanze sindacali all’interno delle aziende furono introdotte in Francia dagli accordi di Grenelle nel 1968).
La liberazione della parola femminile in relazione all’antica dominazione maschile.
Il Sessantotto è anche l’inizio del solidarismo politico e umanitario internazionale. Fu in quel periodo che le donne e gli uomini del nord cominciarono ad interessarsi di quello che accadeva nel sud del mondo.
Questi sono ovviamente gli aspetti più progressisti scaturiti da quel periodo. Vi furono certamente degli aspetti più cupi.

Quali furono questi aspetti cupi?

L’adozione di un vocabolario estremamente dogmatico del marxismo leninismo, del quale si è nutrita una gran parte dei giovani di allora. Si trattava di parole e di un lessico che datavano alla Comune di Parigi (1871), alla Rivoluzione Russa (1917). Da allora il mondo era nel frattempo totalmente cambiato.
Eravamo imprigionati non solo nel dogmatismo ma anche in pratiche politiche autoritarie.
Ed è un paradosso del Sessantotto. Contestavamo le società che giudicavamo agire in maniera autoritaria ma avevamo noi stessi replicato quelle pratiche autoritarie, ad esempio, nel funzionamento dei partiti. Ci sono voluti molti anni per sbarazzarci di questa “eredità”.
E poi c’è l’aspetto più discutibile del Sessantotto.

Quale sarebbe?

Quello del passaggio alla violenza e al terrorismo. Un fenomeno che ha interessato soprattutto l’Italia e la Germania Ovest. La Francia ne è stata toccata in misura minore: da noi si è trattato per lo più di azioni individuali e non vi è stato quel passaggio massiccio al terrorismo riscontrabile altrove.

Perché questa differenza tra la Francia, da un parte, e l’Italia e la Germania, dall’altra parte?

La Germania e l’Italia ebbero due esperienze di lunga durata che hanno lasciato il segno: il nazismo e il fascismo. Queste ideologie totalitarie furono molto potenti e penetrarono in profondità le società dei due paesi. E quindi, secondo qualcuno, per liberarsi completamente dell’eredità di queste ideologie autoritarie si doveva utilizzare dei mezzi radicali e rispondere violentemente alla struttura dello stato che avevano ereditato.
Il caso della Francia fu diverso. Il regime di Vichy non ebba la stessa ampiezza in termini temporali e profondità. Quindi non ci fu il tempo per la nascita di una rappresentazione negativa dello stato.
Al contrario nelle società tedesca e italiana del dopoguerra l’immagine dello stato era fortemente negativa. Questa era la ragione della sfida che alcuni decisero di lanciare alla struttura dello stato.
C’è un secondo aspetto che ritengo tuttavia importante nel caso italiano.

Benjamin Stora (2012)

Quale?

Il ruolo del Partito comunista italiano (Pci) era molto diverso da quello del Partito comunista francese (Pcf). Il Pci si è lungamente interrogato sul passaggio alla democrazia. Si pensi al rapporto con la Democrazia cristiana e al tentativo di raggiungere un accordo con essa. Si trattava di un partito comunista meno stalinista e meno rigido rispetto al Pcf, che all’epoca del Sessantotto creò un vero e proprio “cordone sanitario” tra gli operai e gli studenti. I “radicali” non poterono insinuarsi nella società francese a cause della forza del Pcf, un freno reale per l’estrema sinistra francese. Tuttavia è la stessa ragione per la quale il comunismo francese per molto tempo non fu in grado di “cambiare pelle” e di passare ad una qualche forma di accettazione della democrazia interna e esterna.
Non fu certamente il caso dell’Italia. Il Pci era molto più permeabile e flessibile.
Il caso tedesco è ancora diverso, poiché un partito comunista non esisteva, tranne ad est.
Per quanto riguarda la deriva violenta del periodo successivo al Sessantotto penso quindi che abbia contato anche la relazione col comunismo che nei singoli paesi europei si era realizzata.

Nel caso francese, commemoriamo il Sessantotto e tuttavia c’interroghiamo poco sulla guerra d’Algeria. Eppure ciò che accadde in Algeria fu l’evento fondatore della Quinta Repubblica francese. In un’intervista del 2012, lei disse che il Sessantotto ha occultato i grandi interrogativi nati in seguito alla guerra d’Algeria.

L’affermazione massiccia della gioventù del Sessantotto ha in qualche modo coperto le vicende delle generazione di giovani che l’ha preceduta. Si trattava della generazione che aveva vissuto la guerra d’Algeria, una guerra coloniale durata sette anni e che ha mobilitato in totale quasi un milione e mezzo di soldati.
La generazione del Sessantotto tuttavia aveva uno spirito individualista, “festivo”, libertario e anti-militarista che ha considerato la guerra d’Algeria come una questione risolta e ormai relegata al passato. Secondo questo punto di vista l’Algeria era divenuta indipendente e di conseguenza la questione coloniale non esisteva più.
Si trattò di un’illusione poiché essa si ripropose in maniera molto violenta, proprio perché non era stata completamente assorbita e accettata dalla società francese. E infatti è ritornata sulla scena “memoriale” francese vent’anni dopo.

Nella storia del Ventesimo secolo il movimento del Sessantotto è considerato come un grande movimento libertario che ha scosso le fondamenta della società. In Francia vi sono degli intellettuali che sostengono che il Sessantotto avrebbe liquidato i valori della “vecchia” Francia, che costituivano una sorta di diga all’individualismo liberale. Che cosa ne pensa?

È la posizione dei neo conservatori, che attaccano il Sessantotto con una certa astuzia. Sostengono che allora i movimenti spalancarono troppo le porte alle libertà individuali a detrimento di un modello collettivo di società. Non è totalmente sbagliato come ragionamento.
Tuttavia coloro che oggi sostengono quest’argomentazione sono sempre stati contro le libertà individuali.
Si dimenticano di raccontare che cosa fosse la società prima del Sessantotto.
Si dimenticano di dire che allora erano stati contro il diritto di sciopero, contro la libertà delle donne, contro le libertà sindacali.
Oggi l’obiettivo di questo punto di vista è la negazione del movimento reale della società. Si vuole fare in modo che i movimenti sociali abbiano breve durata e lieve impatto, per impedire loro di scuotere davvero le fondamenta dei rapporti di forza della dominazione sociale.

Infatti parliamo del Sessantotto per capire cosa si debba cambiare nelle nostre società attuali. Spesso si fa una comparazione tra il progetto politico forte di allora e la mancanza, oggi, di idee politiche e di utopie così forti. Perché non si riesce più a riunire i diversi strati della popolazione attorno ad un progetto politico comune?

Nelle nostre società è molto difficile oggi pensare nei termini di un programma che saldi più gruppi sociali. Ormai da una trentina d’anni c’è una sorta di frammentazione della società. Un vero e proprio processo di individualizzazione, che riguarda soprattutto i giovani. A questa perdita di senso del collettivo è seguita una sfiducia verso tutti i programmi unificanti. E oggi non è più all’ordine del giorno. E poi c’è sicuramente un altro aspetto di cui tenere conto. Viviamo in un mondo dove la finanziarizzazione della società è molto potente e ha accresciuto le distanze tra le classi sociali e tra il nord e il sud del mondo.
È difficile rispondere quindi alla sua domanda. Io stesso mi faccio moltissime domande.
Possiamo tuttavia constatare che oggi nelle nostre società il rifiuto di qualsiasi verticalismo politico si accompagna ad aspetti d’orizzontalità della mobilitazione sociale e culturale. E di ciò si dovrebbe tenere conto.
E l’orizzontalità dei movimenti è l’eredità del Sessantotto, o meglio dei tentativi che allora vennero fatti per pensare la politica in maniera diversa. È vero che la generazione di allora non riuscì a realizzarlo ma si pose il problema.

Che cosa pensa della situazione attuale della sinistra europea?

Possiamo partire dalla situazione francese per cercare di capire che cosa sta accadendo. In Francia oggi esiste la sinistra di Jean-Luc Mélenchon e de La France Insoumise, che ha riunito parte degli elettori socialisti e comunisti attorno a un programma fortemente anti-imperialista. E anche nazionalista, dobbiamo dircelo.
Un nazionalismo che è eredità del Partito comunista francese, il cui discorso politico sull’immigrazione non fu mai chiaro. È fondamentalmente la vecchia sinistra. Tuttavia c’è qualcos’altro che si muove in Francia e che merita attenzione.

Di che cosa parla precisamente?

Parlo di ciò che sta accadendo all’interno de La République en marche (ndr, il partito del presidente Emmanuel Macron).
Lo abbiamo visto per esempio recentemente sul tema dei migranti, questione sulla quale vi è stato disaccordo all’interno del gruppo parlamentare (ndr, i disaccordi riguardano il progetto di legge sull’immigrazione e il diritto di asilo, che rende più severa la normativa).
Certo si tratta di una cinquantina di deputati, ma meritano attenzione. Perché ciò significa che vi sono delle possibilità di una “ricomposizione socialdemocratica” classica da La République en marche contro una rappresentanza del partito troppo a destra.

E il Partito socialista francese?

Non credo alla rinascita del Ps o del Pcf. Ritengo invece che la sinistra possa ritornare sulla scena francese tra questi due poli, tra La France Insoumise di Mélenchon e la componente socialdemocratica de La République en marche di Emmanuel Macron. E ci sarà presto una competizione tra questi due poli. Gli altri partiti di sinistra – il Ps, il Pcf, i verdi – continueranno probabilmente ad esistere, ma come formazioni minoritarie, senza leader, senza figure rappresentative, senza programmi. E questa scomparsa dei vecchi partiti di sinistra si riflette sul sindacalismo.

In che modo?

La Confédération générale du travail (Cgt) è in crisi. Si tratta di una vecchia organizzazione sindacale controllata per molto tempo dal Pcf e oggi un’organizzazione che cerca di esistere nel radicalismo. Tuttavia in ogni elezione sindacale la Cgt viene ormai superata dalla Confédération française démocratique du travail (Cfdt, socialdemocratica). La Cgt non è più il primo sindacato in Francia. Questo significa che nella società reale prevale il desiderio di ricercare il compromesso e che la stagione dei bracci di ferro permanenti è terminata. In sintesi, la nozione di sindacalismo rivoluzionario che esisteva fino a trent’anni fa si è considerevolmente indebolita. Questa vecchia sinistra deve quindi adattarsi a una nuova società, dove l’individualismo è molto forte, anche nel mondo del lavoro, e la precarizzazione della condizioni di lavoro è diffusa.
Possiamo dire che accadrà pressoché la stessa cosa in Italia. È la ragione per la quale sono interessanti le elezioni italiane.

Ha seguito la campagna elettorale italiana?

Si seguo la politica italiana. Soprattutto perché spesso l’Italia anticipa ciò che accadrà in Francia. Ad esempio, il Partito socialista italiano è crollato a causa della corruzione diffusa. Non è così diverso in Francia. Il Ps era un partito potente che controllava il Senato, le regioni, le grandi città, i comuni. E sono caduti sulla questione della corruzione. Pensi solo alla vicenda di Jérôme Cahuzac e al suo impatto (ndr, Jérôme Cahuzac, socialista e ministro del bilancio tra il 2012 e il 2013, si dimise dal governo per un’accusa di frode fiscale e successivamente fu condannato a tre anni di carcere). Possiamo fare anche l’esempio del Partito comunista italiano, che oggi non esiste più, ma che ha anticipato di decenni le sorti del Pcf.
Per la Francia, l’Italia è un vero e proprio laboratorio politico delle tendenze future.

“Sessantotto, luci e ombre”. Conversando con Benjamin Stora ultima modifica: 2018-03-07T19:58:24+01:00 da MARCO MICHIELI
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