Dopo il 4 marzo, l’incognita Esteri e Difesa

Chiunque sarà chiamato a guidare l’Italia sarà immediatamente chiamato a fare i conti con l'Europa e il mondo.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Un paese che ha coscienza di sé e anche un minimo di orgoglio nazionale, sentimento che non dovrebbe essere né di destra né di sinistra, cercherebbe una posizione condivisa su due fronti: la politica estera e quella di difesa. Ma il condizionale è d’obbligo quando il paese in questione è l’Italia. E lo è ancor di più se si guarda alla campagna elettorale che ha portato al terremoto politico del 4 marzo. Il mondo non è esistito. Non è esistita la Libia, la tragedia siriana, la guerra dei dazi scatenata da Trump, una corsa al riarmo che si giocherà soprattutto in Europa e via elencando. Si dice, non so quanto a ragione, che la politica estera non porta voti (e non fa vendere i giornali). Sarà pur vero, ma questo, semmai, è un problema e non un dato di fatto immodificabile.

Perché un mondo senza governance incide pesantemente, e in maniera negativa, sui problemi di casa nostra. E c’è di più: dall’immigrazione alla sicurezza, dal clima al lavoro, non c’è uno, dicasi uno, dei grandi temi del nostro tempo che possa essere affrontato e risolto all’interno di una dimensione nazionale, neanche quando questa nazione si chiama Stati Uniti d’America o, per restare nel vecchio continente, la Germania. Figuriamoci l’Italia. Certo, nei programmi – che nessuno ha mai letto – di tutti i partiti non manca il capitoletto sulla politica estera e sull’Europa: una formalità, più che altro. C’è chi si è autodefinito europeista e chi euroscettico o addirittura “anti”: c’è chi (Giorgia Meloni) ha fatto del “muratore” – nel senso di edificatori di muri anti-migranti – Viktor Orban, il padre-padrone dell’Ungheria, il suo modello di riferimento. Altri hanno evocato lo spirito di Altero Spinelli, ma nella sostanza il nulla.

Giorgia Meloni insieme a Viktor Orban, il “padre-padrone” dell’Ungheria.

Eppure chiunque sarà chiamato a guidare l’Italia sarà immediatamente chiamato a fare i conti con il mondo, a decidere come comportarci in Libia e come rispondere alla guerra dell’acciaio e delle auto dichiarata dal tycoon miliardario che guida l’America (acciaio e auto, due asset fondamentali per l’Italia). E ancora: restare o meno in Afghanistan, confermare l’invio di quattrocento militari in Niger, finire di acquistare – come pretende Washington – gli F-35, battersi o meno in Europa perché siano tolte le sanzioni alla Russia di Putin, come riprendere il doloroso dossier sulla morte di Giulio Regeni e che risposte dare agli ultimatum del governo turco per ciò che concerne la partita degli idrocarburi in corso nel Mediterraneo.

Sul terreno della difesa, c’è da decidere se insistere sulla creazione di un esercito europeo, sulle spese in armamenti, su programmi contestati come quello per gli F-35. Se guardiamo al partito vincitore delle elezioni, il Movimento cinque stelle, ciò che si nota è la correzione di rotta operata dal premier in pectore, Luigi Di Maio. Di referendum sull’euro non se ne parla. La parola d’ordine sembra essere: responsabilità, rassicurazione.

Se il Movimento Cinque Stelle andrà al governo resterà nella Ue ma magari metterà in discussione alcuni trattati e la questione del deficit al tre per cento.

E ancora, rilanciò Di Maio alla Link Campus University di Roma, un mese fa:

Non parlerò molto di Unione europea perché l’Ue non è politica estera ma la casa naturale del nostro paese e anche del M5S. È l’alveo naturale dentro il quale l’Italia deve continuare a sviluppare le sue relazioni economiche e politiche. Rappresenta un rapporto costante che dobbiamo avere con altri paesi all’interno di un organo sovranazionale che dovrà caratterizzarsi sempre più in politiche di solidarietà verso i popoli che in questo momento hanno più difficoltà nell’Ue. Tra questi c’è sicuramente anche l’Italia.

E poi sottolineò che la politica estera di un eventuale governo M5S sarà imperniata su alcuni punti “inderogabili”, ovvero “rispetto del diritto internazionale e della carta delle Nazioni Unite”, rispetto “del multilateralismo e della politica della non ingerenza”, “cooperazione internazionale”. Di Maio disse:

Vedo una grande opportunità di riscatto per l’Italia. Abbiamo un grande corpo consolare e uno degli eserciti più formati al mondo, dobbiamo essere orgogliosi di questo.

Sulla Nato i Cinque stelle in passato non avevano nascosto posizioni radicali, fino ad arrivare a ipotizzare un’uscita dall’organismo, salvo poi girare sulla necessità di una riforma.

Qualsiasi messa in discussione su questo fronte deve essere legata a un dialogo con gli Stati Uniti. (…) Abbiamo sempre detto e lo dirò anche oggi che il nostro obiettivo è restare nella Nato ma abbiamo perplessità sulla spesa al due per cento del Pil in armamenti. A noi farebbe piacere avviare dei progetti in ottica di sicurezza per rafforzare l’intelligence, investimenti in innovazione che possano anche essere partnership esclusive con gli Stati Uniti

sostenne di Maio nel suo viaggio di accreditamento a Washington, lo scorso novembre.

Sul delicato fronte israelo-palestinese, il leader pentastellato smorza i toni “filo-iraniani” del fondatore del movimento, Beppe Grillo, e afferma che un governo a sua guida resterà legato alla soluzione a due stati, così come sulla Libia si è detto impegnato alla convocazione di una conferenza internazionale a Roma che veda impegnati tutti i protagonisti del “caos libico”. Si vedrà.

Resta, però, la sensazione, non solo generata da una campagna elettorale fuori dal mondo, che il peso dell’Italia post-4 marzo sarà ancora più debole di quello precedente al voto.

Luigi Di Maio a Washington nel suo viaggio del novembre scorso.

Non si tratta di drammatizzare o evocare un’Europa che guarda all’Italia come un pericolo e non come un partner essenziale. Sarebbe un grave errore, come lo è, però, minimizzare i problemi, sottovalutando gli impegni che da qui a breve tempo saremo chiamati a ottemperare o a disdire. I giornali cominceranno tra poco a sbizzarrirsi sul toto-ministri, riedizione politica del calcio mercato da bar dello sport, e questo giochino riguarderà anche la Farnesina e la difesa. A questo gioco non ci iscriviamo, ma una cosa sì che va detta in anticipo sui nomi: evitate di rivolgervi a un tecnico, sia esso un ambasciatore o un generale.

Il ministero degli esteri ha funzionato meglio, e non è certo nostalgia da Prima Repubblica, quando a guidarlo era un politico, ancor meglio se navigato.

Perché l’Italia è una media potenza che ha nel Mediterraneo il centro della sua geopolitica e degli interessi economici, a partire da quelli energetici (petrolio, gas…). Sappiamo bene che diversi fratelli-coltelli europei, vedi Francia, vorrebbero scalzare l’Eni dalla premiership energetica in Libia (per questo si è fatta una scellerata guerra a trazione francese della quale continuiamo, come Italia, a pagarne le conseguenze) come nelle relazioni con Egitto e Libano.

L’Italia è attualmente impegnata in 35 missioni di cui 33 internazionali in 23 paesi.

L’Italia è membro del G-7 e del G-20, e dunque dovrà assumere una posizione chiara, netta, su come reagire alla guerra dei dazi annunciata, e in parte già iniziata, e concertare un’iniziativa comune con altri partner, non solo europei e occidentali, investiti da una guerra per ora “solo” commerciale. Insomma, saremo chiamati a esserci sullo scacchiere internazionale. Con la consapevolezza che tra non molto alcuni salvifici “paracaduti” verranno meno: primo fra tutti, Mario Draghi alla presidenza della Bce (meno grave, perché più impalpabile, il commiato di Federica Mogherini da Lady Pesc).

In Europa si è scatenata ormai da tempo una corsa all’accaparramento di posti-chiave nella tecnoburocrazia di Bruxelles, nei quadri delle commissioni che contano, nei veri centri di potere Ue. E lo stesso dicasi per la Nato o per le missioni internazionali sotto egida Onu o Nato (dal Libano all’Afghanistan, dalla Somalia al Kosovo) nelle quali l’Italia (Unifil 2) ha un ruolo di comando. Il sovranismo nazionalista della Lega salviniana sarebbe una iattura per l’Italia, il viatico per una devastante marginalizzazione. Ma è altrettanto vero che l’Europa dell’austerità, del cappio di bilancio, della chiusura sui migranti, è un’Europa che ha contribuito al risultato elettorale del 4 marzo. Un’Europa la cui presenza-assenza è stata percepita da una parte consistente dell’elettorato come una minaccia o un’intrusione e non come una risorsa, un’opportunità.

La nave Saipem 12000, del gruppo Eni, protagonista delle recenti tensioni tra Italia e Turchia per il gas al largo di Cipro.

E poi c’è il rapporto con i paesi della sponda sud del Mediterraneo: paesi di transito (Libia, Algeria, Tunisia, Egitto) o di origine (l’Africa subsahariana) della moltitudine (che con l’arrivo dell’estate aumenterà) che cerca un futuro solcando la rotta mediterranea, direzione Italia. Su questo, il governo che c’è, ancora per poco, aveva cercato di tenere insieme cooperazione e sicurezza, con risultati in chiaroscuro, ma che comunque rispondevano a un indirizzo politico.

I nostri impegni con la Libia saranno mantenuti? E cosa si ha intenzione di fare per sostenere l’unica esperienza ancora in vita, ma investita da una drammatica crisi economica e sociale, della Primavera araba, la Tunisia? Sono domande che attendono risposte. Il mondo non si piega ai tempi della nostra politica, ma bussa alle porte del Bel Paese. E qualcuno dovrà rispondere. Molto presto. In politica estera non sono previsti tempi supplementari.

Dopo il 4 marzo, l’incognita Esteri e Difesa ultima modifica: 2018-03-08T16:44:51+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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