Tomaso Montanari, in un’intervista al Fatto quotidiano, ricorda il governo della “non sfiducia” o delle astensioni guidato da Andreotti, 1976, come precedente a cui guardare per dare sostegno politico all’ipotesi di un governo m5S- Pd.
Afferma l’ex-leader degli autoconvocati del Brancaccio:
Berlinguer, con l’astensione del Pci, consentì nel 1976 la nascita del governo Andreotti e Andreotti non era uno antipatico, ma uno che secondo una sentenza definitiva in quel periodo aveva rapporti con la mafia.
Ricorda bene, Montanari. Ma sorvola sulle ragioni più profonde che indussero il segretario del Pci a quella scelta.
L’11 settembre 1973 un colpo di stato in Cile sostenuto dagli Usa aveva rovesciato il legittimo governo socialista di Salvador Allende. Era, Allende, la prova che fosse possibile una terza via per il socialismo, nella democrazia e nella libertà. Con il golpe cileno, un’Europa meridionale circondata da regimi fascisti (Spagna, Portogallo, Grecia). Ce n’era abbastanza per il leader del Pci perché arrivasse a dichiarare che non fosse possibile governare con il 51 per cento.
Montanari, anche se non elabora il suo ragionamento su quel passaggio politico, non lo banalizza, come molti altri che al suo stesso scopo ricordano quel precedente e lo riducono a una sorta di ultima spiaggia per evitare il ritorno immediato al voto. Eventualità peraltro smentita dai numeri parlamentari di allora che proponevano anche altre possibilità. Fu una scelta strategica, non estemporanea, quella di Berlinguer. Che ebbe riflessi duraturi. Per molti di sinistra che allora erano già adulti e politicizzati, per tanti politologi, quel passaggio – un abbraccio mortale – ha segnato l’inizio della fine della sinistra italiana.
E fu fieramente osteggiato, anche da quelli che erano i Montanari di allora.
Fu un passaggio sofferto, complesso, difficile. Preparato nel corso di anni. E che poi fu seguito dalla vicenda Moro.
Oggi, nel giro di pochi giorni, intellettuali e leader che dicevano tutto il male possibile di 5 Stelle, considerano più che auspicabile un incontro con loro. Non prendono neppure in considerazione un periodo di tempo per metabolizzare quanto è successo, capire chi sono davvero i 5 stelle usciti dal voto del 4 marzo. A parte il mantra degli elettori passati dal Pd al partito della ditta Casaleggio, che altro sappiamo di Di Maio e company? Non varrebbe la pena rifletterci un po’ su? Perché tanta fretta e furia da rottamatori più che da costruttori di qualcosa di significativo? Lasciamo al Fatto e ai talk show urlati spiegazioni pettegole, come voglia di posti e di visibilità. No, sono posizioni rispettabili, anche se scarsamente argomentate e, per essere gentili, scarsamente coerenti con quanto affermato non più tardi di dieci giorni fa.
La ragione principale della fretta – nel variegato fronte dei fautori dell’intesa, dagli antagonisti ai poteri forti – è che altrimenti si rischia di tornare alle urne, con il pericolo che il Pd prenda la scoppola definitiva. Mortale. E allora? Fosse anche così, un M5S ulteriormente legittimato da un nuovo voto plebiscitario non sarebbe la rifondazione di una nuova e più larga sinistra che molti degli stessi fautori dell’intesa auspicano? Non è questa la spinta più “nobile” dietro il loro interesse verso i 5 Stelle, l’idea di un’inedita larga sinistra plurale?
La seconda ragione addotta è che, altrimenti, i 5 stelle non potrebbero che allearsi con la Lega. E allora? La Lega governa le due principali regioni italiane. Chi vi si oppone, in Lombardia e in Veneto, non vi si oppone sulla base di argomenti secondo cui sono governi regionali fascisti e razzisti. Maroni non lo è, neppure Fontana, neppure Zaia lo sono.
Soppiantare un’intesa tra M5S e Lega/Fi – un’intesa dettata dal volere maggioritario dell’elettorato – aggirandola con un accordo tra la prima e la terza forza più eletta sarebbe un’operazione non dissimile da quelle deprecatissime messe in atto durante la presidenza Napolitano per scongiurare il ricorso alle urne in un clima di alta instabilità.
Lo chiedono i mercati? Lo chiede l’Europa?
Ammirevole il senso di responsabilità di quelli che ai tempi di Berlinguer-Moro sarebbero stati considerati extraparlamentari. E non c’era niente di male a esserlo, anzi. Mentre ora sembra che tutta la politica debba svolgersi dentro le aule parlamentari. Siamo ben oltre il baciare il rospo, come recitava il fulminante titolo di Luigi Pintor, quando si decise di sostenere il governo Dini. Anche quello un passo che nessuno solo un pochino di sinistra rifarebbe oggi, con tutto quello che è scaturito da quel passaggio, un puro artificio per bloccare Berlusconi.
Il rospo questa volta ha però un sapore particolarmente gustoso.
Messi alle strette, i fautori dell’intesa sciorinano sillogismi. Ma come? il Pd di Renzi s’accorda con Berlusconi e con Verdini e disdegna i Cinque stelle! Già, ma sul Nazareno e sui voti di Verdini, il Pd ne ha persi un bel po’ dei suoi elettori. Si chiede al Pd di riprovarci, anche se Renzi non è più il segretario, e così di perdere tutti quelli che gli rimangono?
Ai tempi del Pci di Berlinguer, nella sinistra estrema c’era una sorta di mistica dell’opposizione, che arrivava a demonizzare il riformismo e la “cultura di governo”.
Importante che da allora si siano fatti passi da gigante, anche nella sinistra di oggi che ha le sue radici in quella che era una sinistra prevalentemente extraparlamentare e d’opposizione. Ma che si sia arrivati al rovescio, alla demonizzazione dell’opposizione, specie per chi ha vissuto le diverse fasi storiche legate alla prima e alla seconda repubblica, non può lasciare indifferenti. Sentire cinguettare esponenti antagonisti e illustri politologi di sinistra in sintonia con i tromboni dei giornaloni e con i poteri forti, è un’altra conferma della mutazione antropologica della politica, una trasformazione che sta rottamando la sinistra così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento.
nella foto in alto Anna Falcone e Tomaso Montanaro

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1 commento
Caro Guido, credo che questa nostra “epoca della tecnica” richieda una profonda riflessione sul peso della politica negli equilibri sociali. Ritengo abbastanza probabile che la differenza tra la destra, il centro e la sinistra non sia più quella dei tempi di Berlinguer e sicuramente non lo è rispetto ai tempi in cui venne scritta la Costituzione. Probabilmente siamo più vicini al tempo dell’Aventino, quando gli schiavi chiedevano una legge che li riconoscesse in quanto tali, che a quello di una qualche via della politica che sappia ristabilire il diritto ad essere uomini, che è come dire “diritto a scrivere la storia”. Ho la sensazione che la politica in sé debba diventare uno strumento per contrastare un nemico che…non fa politica, ma decide per una qualche regola di cui siamo tutti prigionieri perché è, malgrado tutto, fonte di benessere, quello di cui gode un quinto del mondo che consuma i quattro quinti dei beni e delle ricchezze. Ciò che sta sparendo è il concetto di diritto come “diritto di tutti” e noi stessi a destra, a sinistra o al centro per quanto benintenzionati, non abbiamo un pensiero che sappia portarci oltre. Per ora, ma solo per ora, forse è il caso di cominciare dalla Costituzione intendendola come carta dei diritti e come strumento della politica sociale in opposizione a chi forse intende la politica come un passaggio che fa solo perdere tempo.