Confesso di essere tra coloro che reputano indispensabile che la sinistra nel suo complesso (Pd e LeU) dia la sua disponibilità a un confronto con il M5S. Non trovo per nulla convincenti gli argomenti di chi invece sostiene che questa offerta di Di Maio vada respinta al mittente senza neanche sedersi al tavolo.
Si dice infatti che chi ha vinto alle elezioni ha diritto di governare e chi le ha perse deve dignitosamente acconciarsi a fare l’opposizione. Si trascura il fatto che chi ha vinto (5 Stelle da una parte e Lega dall’altra) non è in grado di formare una maggioranza in Parlamento. Ma soprattutto si applica ad un risultato scaturito da elezioni fatte con un sistema prevalentemente proporzionale una logica che vale per un sistema maggioritario e bipolare. Qui non siamo di fronte ad uno schieramento vincitore e uno soccombente, bensì ad un Parlamento composito, e l’unica possibilità di formare un governo è quella di cercare un’intesa tra forze che durante la campagna elettorale sono state contrapposte. È così che si fa in un sistema parlamentare con una legge elettorale proporzionale.
Ciò detto, non trovo tuttavia calzante il precedente del 1976, quando le elezioni le stravinsero la Dc e il Pci, richiamato da Montanari, per le considerazioni fatte da Moltedo. Fu stretto un accordo tra Berlinguer e Moro (Andreotti, che all’epoca nessuno sospettava avesse rapporti con Cosa Nostra, era il garante per la destra Dc) perché si ritenne che fosse l’avvio di un processo che avrebbe permesso anche all’Italia di avere un sistema dell’alternanza, uscendo da una logica da “guerra fredda” molti anni prima della caduta del Muro. Moro e Berlinguer fecero questa scelta con una visione strategica, non perché non fossero possibili altre opzioni.
Sono altri i precedenti storici che mi sono venuti alla mente sentendo i contrari ad un confronto con i 5 Stelle sostenere che non si può dialogare con chi fino a ieri ti ha coperto di insulti. Un precedente lo ha ricordato Massimo D’Alema nella sua ultima intervista al Corriere della Sera: la disponibilità al dialogo che Palmiro Togliatti manifestò nei confronti di Guglielmo Giannini, il leader dell’Uomo Qualunque. Anche l’altro precedente ha come protagonista Togliatti: l’ingresso del Pci nel governo Badoglio, il generale che nei confronti dei comunisti e dei socialisti non si era limitato agli insulti.
La politica non è cosa per chi ha come modello Maria Goretti.
Molteplici sono invece le ragioni che dovrebbero spingere a non respingere in modo pregiudiziale un invito a discutere da parte di Luigi Di Maio. La prima è senza dubbio che siamo di fronte al pericolo che una situazione di stallo costringa ad un ritorno alle urne, che si tradurrebbero fatalmente in un ballottaggio tra 5 Stelle e Lega. La sinistra tutta sarebbe spazzata via, ed è difficile mantenere un olimpico distacco di fronte ad una prospettiva di questo genere.
La seconda ragione è nel carattere del M5S. Noi sappiamo che lì dentro c’è di tutto, dall’estrema sinistra all’estrema destra. Il grosso del voti nuovi del 4 marzo è venuto dal Pd, visto che la lista LeU è riuscita a intercettare solo un dieci per cento dei cittadini che si sono rifiutati di votare nuovamente per il partito di Renzi.
Ad un tavolo di trattativa, necessariamente si sarebbe costretti a dire dei sì e dei no molto chiari e ai 5 Stelle sarebbe molto difficile tenere insieme tutto e il contrario di tutto, come invece sono riusciti a fare finora parlando solo dei loro stipendi e della corruzione del sistema. Ponendo loro questioni molto precise, sarebbe Di Maio a dover rispondere, con il rischio di alienarsi una parte degli elettori e, probabilmente, anche dei gruppi parlamentari pentastellati. Mi sfugge quindi il motivo per cui la sinistra dovrebbe, con un no pregiudiziale, togliere dall’imbarazzo la dirigenza dei 5 Stelle, che sarebbe così libera o di cercare un’intesa con la Lega (chi potrebbe rimproverare questa sterzata a destra dopo aver verificato l’indisponibilità della sinistra?) o di puntare a nuove elezioni, con tutta la responsabilità a carico del campo progressista.
Ovviamente, non è detto che un confronto M5S – Pd – LeU porti ad un accordo. E anche in caso positivo, lo sbocco potrebbe essere un governo di coalizione, o un governo tutto M5S con appoggio esterno di Pd e LeU, oppure un governo minoritario dei 5 Stelle con l’astensione della sinistra. L’unica cosa certa è che la sinistra non si assumerebbe la responsabilità di uno stallo che non potrebbe non avere conseguenze negative per il Paese. E avrebbe così anche il tempo per avviare un processo rifondativo, tentando di rimettere in sintonia gli ideali socialisti con una realtà italiana ed europea profondamente cambiata in questi anni. Uno sforzo di analisi che dovrebbe coinvolgere tutte le forze socialiste dell’Europa, perché la crisi è continentale, e Renzi ha la responsabilità di aver cercato di farvi fronte con una rincorsa forsennata della destra e con una caccia senza pietà di chi vuole restare socialista (lui l’ha chiamata rottamazione).
C’è bisogno di tempo per ragionare, per chiamare a raccolta le migliori intelligenze, e per individuare idee e strumenti nuovi adatti alla mutata realtà, con la lucidità e il coraggio che si sono avute dopo altre sconfitte, come quella della Fiom alla Fiat nel ’55, quando si dovette fare i conti con i cambiamenti avvenuti nei processi produttivi e nelle condizioni del lavoro operaio.
C’è bisogno di tutto tranne che ridursi a scegliere tra Calenda e Zingaretti e andare avanti come prima, nella convinzione che il problema sia solo quello di avere un nuovo leader e, come dicono i guru della comunicazione, una nuova narrazione.

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