La guerra dell’Isis riparte dal Sinai

Dopo i rovesci che lo Stato islamico sta subendo in Mesopotamia, il ramo sinaitico del califfato si propone come nuovo polo del jihadismo regionale
FRANCESCO VESPIGNANI
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L‘attacco alla moschea di al-Rawda del 24 novembre 2017, che ha causato oltre trecento vittime, ha riportato in primo piano la minaccia terroristica nel Sinai egiziano. Nonostante la strage non sia stata rivendicata da nessun movimento, molti esperti hanno scorto la mano di Wilayat Sina (WS), il ramo locale dell’Isis, dietro questo episodio di violenza.

Sorto nel 2011 col nome di Ansar Bayt al-Maqdis,  WS è affiliato dal novembre 2014 allo Stato islamico, adottando la denominazione attuale (Wilayat Sina, “Provincia del Sinai”). L’adesione all’Isis ha garantito l’accesso ad armamenti più sofisticati, consiglieri più esperti e una capacità offensiva più temibile, sviluppo visibile dall’anno successivo con l’abbattimento di un aereo passeggeri russo e la temporanea occupazione della cittadina di Sheikh Zuweid, la seconda più grande della regione.

Fucili semiatuomatici in dotazione dei combattenti di WS

Il massacro perpetrato alla moschea di al-Rawda è il primo attacco su larga scala compiuto dopo tali episodi, cioè a circa due anni di distanza. Ciò sembra indicare un fattore di novità rispetto alla strategia degli ultimi anni caratterizzata da un conflitto a bassa intensità, con frequenti raid e imboscate contro le forze governative, e da tentativi di ingraziarsi la popolazione locale, spesso vessata dai militari.

Le ragioni dietro questo cambiamento vanno ricercate principalmente nei rovesci che lo Stato islamico sta subendo in Mesopotamia: il ramo sinaitico del califfato intende porsi come nuovo polo del jihadismo regionale e un’azione vistosa come l’attacco alla moschea è una mossa di propaganda molto efficace volta ad attrarre nuovi combattenti, in particolare i foreign fighter in fuga dalla Siria. Lo scopo ultimo è quello di ricreare un’entità statale simile a quella già collaudata nel teatro levantino, con il quale il Sinai condivide alcuni aspetti importanti, tra i quali la natura tribale della popolazione e l’inaccessibilità del territorio.

In risposta all’attacco, il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi ha promesso di utilizzare “forza bruta” nei confronti degli attentatori. E tuttavia, è proprio questa strategia, rimasta essenzialmente inalterata dal 2011, che rischia di prolungare il conflitto. L’esercito, politicizzato dal regime, non riesce e non vuole adottare misure militari più efficaci. Questo approccio securitario è la principale fonte di legittimità del regime, che ha promesso di sradicare la violenza jihadista dal paese (incluso il Sinai). Ma l’arbitrarietà delle misure adottate e l’uso di violenza indiscriminata anche contro civili hanno solo acuito la situazione.

Immagini di un attacco di WS contro un’unità navale egiziana, luglio 2017

Il persistere di questa instabilità, nonostante l’impegno militare e la retorica del presidente, potrebbe minare la legittimità del regime stesso. Inoltre l’inettitudine delle forze di sicurezza in occasione dell’attacco di al-Rawda (mancata intercettazione degli assalitori, assenza sul luogo dell’attacco e gravi ritardi nonostante la notifica di quanto stava accadendo) è in stridente contrasto con la pomposa retorica di successo del regime egiziano. Tutto ciò mentre le cause socio-economiche alla base dell’insurrezione persistono inalterate.

Il Sinai infatti è da decenni trascurato e i suoi abitanti, beduini in massima parte, sono emarginati dal resto della società ed esclusi dalla ricchezza che il turismo ha portato alla parte meridionale della penisola, bagnata dal Mar Rosso.

A ciò s’aggiungano la chiusura e la demolizione dei tunnel di collegamento con la Striscia di Gaza, arteria principale per il mercato nero e il contrabbando, per un traffico stimato attorno a trecento milioni di dollari nel 2012.

A più riprese, l’ultima delle quali a ottobre 2017, il governo egiziano ha raso al suolo interi settori della cittadina frontaliera di Rafah per impedire ulteriori contatti con i palestinesi di Gaza. Facendo leva su fattori quali povertà, disoccupazione, assenza di istruzione e di infrastrutture, i miliziani di WS hanno per anni avuto il sostegno, o almeno la connivenza, della popolazione locale, in parte radicalizzata a seguito del pluridecennale degrado.

L’attentato alla moschea di al-Rawda ha inoltre portato a due insoliti sviluppi.

1 Il primo riguarda l’intensificarsi degli incontri tra le autorità e i capi delle principali tribù beduine della zona, già iniziati a maggio 2017, volti a stabilire una collaborazione tra l’esercito e i locali. Le tribù forniscono informazioni e guide alle truppe governative, e, più raramente, prendono parte agli scontri contro Wilayat Sina. L’ultimo attacco ha infatti esasperato la popolazione, presa di mira da entrambi i contendenti, ma costretta inoltre a subire costantemente le misure draconiane che costituiscono l’applicazione auto-assegnata della Shari’a da parte di WS.

L’intensificarsi di queste vessazioni, dovuto in parte all’arrivo di foreign fighter estranei agli equilibri locali, ha spinto i capi locali all’azione. Nonostante sia appena agli albori e non condivisa da tutti, la loro collaborazione con l’esercito potrebbe pesare notevolmente sull’esito del conflitto.

2 Il secondo sviluppo riguarda un timido ritorno di al-Qaeda nel Sinai, tramite il suo affiliato Jund al-Islam. Tale gruppo, fuoriuscito da WS quando questi abbracciò l’ideologia dell’Isis nel 2014, ha condannato l’attacco e giurato di sradicare il rivale dalla regione. Numericamente esiguo, Jund al-Islam mira ad attrarre nuovi adepti con la sua retorica altisonante per poi ricostituirsi e sfidare WS: intende approfittare delle evidenti difficoltà dell’Isis in Siria, delle sue crescenti perdite nel Sinai, dei suoi problemi con alcune potenti tribù beduine e del montante malcontento locale nei suoi confronti per tornare alla ribalta dopo anni di latitanza.

Un militante di WS in un’immagine tweet di @ejmalrai

Nonostante le numerose incertezze sul futuro della penisola, la spirale di violenza continuerà (anche oltre l’eventuale sconfitta di WS) fintanto che il governo egiziano sarà incapace di cambiare strategia. Un approccio basato interamente sulla forza bruta si è rivelato inadatto a risolvere i problemi socio-economici di fondo e rischia di minare la legittimità di al-Sisi. Una situazione a cui il presidente egiziano dovrà far particolare attenzione visto l’avvicinarsi delle controverse elezioni di fine marzo, nelle quali è, praticamente, l’unico candidato.

La guerra dell’Isis riparte dal Sinai ultima modifica: 2018-03-12T16:35:43+01:00 da FRANCESCO VESPIGNANI
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