L’agnello che fa tremare Trump e i repubblicani

Il successo in Pennsylvania del candidato dem Conor Lamb è un serio segnale d'allarme in vista del voto di novembre per il Gop e il suo presidente. Che si chiude nel suo bunker nominando in posti chiave falchi che gli somigliano
MARTINO MAZZONIS
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Negli Stati Uniti il voto per i singoli candidati alla camera dei rappresentanti e al senato o per i governatorati non è un voto nazionale. Già, andatelo a dire a Barack Obama, che nel 2010, nel mezzo di una rivolta nazionale, populista e di destra contro la riforma sanitaria – di cui nessuno ancora conosceva gli effetti positivi o negativi – e la sua persona, perse la maggioranza e la possibilità di attuare la sua agenda politica.

Eppure lo spin, la spiegazione interessata, data dai repubblicani alla sconfitta nel 18esimo distretto della Pennsylvania ad opera del moderato democratico Conor Lamb (lamb=agnello ndr) è quella: abbiamo perso una corsa e l’effetto benefico della nostra riforma fiscale non ha ancora dato i frutti in termini elettorali. Da qui a novembre le cose saranno diverse (mentre scriviamo il risultato non è ufficiale talmente è sul filo di lana, ma il dato: lo spostamento di voti da un partito all’altro, resta).

Conor Lamb alle urne

Il voto in Pennsylvania è quindi un segnale nazionale: qui – in questa parte dello Stato – i repubblicani vincevano a spasso come il Pd a Bologna. Nelle ultime due elezioni il rappresentante uscente non aveva nemmeno sfidanti. Non valeva la pena. E invece Lamb ha vinto nonostante un comizio di Trump a due giorni dal voto e dieci milioni di dollari provenienti dai forzieri nazionali del partito. Il voto – inutile ricordarlo – viene dopo la clamorosa sconfitta in Alabama (la SudTiroler Volkspartei che perde il quartiere più austriaco di Bolzano) e un’altra serie di rovesci più o meno cocenti. O partite vinte di un soffio in distretti dove non c’era mai stata discussione.

Gli esperti di sondaggi e mappe elettorali sostengono che i seggi meno sicuri per i repubblicani rispetto a quello perso a Pittsburgh e dintorni siano più di cento. Il che significa che, se non cambia la marea in maniera drammatica, il partito di Trump corre seri rischi di perdere la maggioranza alla camera. Un’ipotesi tutto sommato remota fino a pochi mesi fa e nonostante Trump. Per il senato la partita è più facile e più complicata allo stesso tempo per ragioni di mappa elettorale: la camera alta elegge un terzo dei senatori a ogni elezione e i seggi in ballo in questa tornata non favoriscono in teoria il partito democratico.

“Folla epica” – da un tweet di Trump – al comizio del presidente a Moon, Pennsylvania, l’11 marzo scorso.

Cosa ci dice questa piccola partita per il seggio di un deputato sui due partiti?

Partiamo dai democratici: Lamb è un moderato che corre in un distretto moderato. Per lui hanno votato i bianchi dei suburb, i sobborghi benestanti, che normalmente sono più repubblicani che non democratici, ma anche minoranze e liberal. Questo riavvicinamento di una parte dell’elettorato bianco non di sinistra è dettato dalla capacità di individuare candidati adatti e dal fattore Trump.

Conor Lamb con l’ex-vicepresidente Joe Biden

Per adesso, vedremo a novembre e, soprattutto tra due anni, il partito democratico riesce a tenere assieme l’ala militante e quella moderata, Sanders e Clinton, per fare i nomi del passato. Una delle ragioni sono proprio le vittorie in serie, ma individuare una figura capace di non perdere voti al centro e portare a votare i giovani non sarà troppo facile. I moderati non vorranno cedere il partito che governano da decenni, i liberal e i socialdemocratici (chiamiamoli così), sentono di essere molto forti nella base e immaginano di poter essere loro la faccia che riconquista le contee passate a Trump a causa del voto operaio bianco.

Una mano a determinare l’esito di questo scontro, la daranno i movimenti sociali. Tra questi la protesta senza precedenti degli studenti contro le armi da fuoco, il mettere sotto accusa la lobby delle armi e il tentativo di non far dimenticare la strage a Parkland. Questi sono giovani bianchi e nuovi alla politica. Pongono una domanda potenzialmente dirompente per gli interessi custoditi dai repubblicani a Washington. Sono l’ennesimo segnale di un senso comune che cambia – e che aumenta la frattura tra giovani e vecchi, tra zone rurali e metropolitane. Le concessioni repubblicane sulle armi, non granché, sono comunque un segnale di paura.

La prossima sono io? Una delle numerose manifestazioni #walkout

Lo sciopero delle maestre della West Virginia sottopagate è un altro esempio. Non sono domande necessariamente radicali quelle espresse da queste proteste, semplicemente spostano il centro del dibattito pubblico e contribuiscono a riposizionare l’agenda su temi più congeniali ai democratici.

Il muro messicano sarà forse un altro passaggio: se i neri hanno fatto vincere i Dem in Alabama, i latinos del West potrebbero recarsi in massa alle urne come non hanno mai fatto. Lo si è detto tante volte dal 2008 a oggi, ma le storie di famiglie separate senza pietà (l’ultima copertina di Time è su questo), potrebbero provocare una reazione forte.

I repubblicani sono messi peggio per una lunga serie di ragioni. L’incapacità del Congresso di produrre legislazione di qualche significato nonostante la maggioranza è una tra queste. L’estremismo di alcuni candidati alle primarie che determineranno chi sono i candidati al Congresso, un’altra. Ma la ragione più colossale si chiama, naturalmente, Donald Trump.

Nei giorni che precedevano il voto in Pennsylvania il presidente ha annunciato l’introduzione di tariffe su acciaio e alluminio, mentito sul deficit commerciale con il Canada, attaccato l’industria dell’auto tedesca. Argomenti per blandire la base operaia bianca e anti-globalizzazione, ma parole terribili per il blocco di potere reale che sostiene i repubblicani: Trump ha vinto in qualche contea operaia, ma gli elettori ricchi, la finanza, restano la maggioranza del voto al partito dell’elefante. Il consigliere economico e banchiere Gary Cohn, espressione di quel mondo, si è dimesso ed è stato rimpiazzato da una figura minore.

Negli stessi giorni il presidente ha licenziato il segretario di stato Rex Tillerson e (sembra di capire) anche il Consigliere per la sicurezza nazionale, l’ex generale McMaster. L’amministrazione perde i pezzi importanti, diventa un fortino assediato dove le figure che rimpiazzano chi esce di scena sono più vicine al presidente e ne difendono le giravolte improbabili. Non è un bello spettacolo.

Il presidente Trump alla Boeing Co., St. Louis, 14 marzo

Lo spettacolo peggiore per i repubblicani è però quello che riguarda il Russiagate: l’impressione è che il cappio si stia stringendo attorno al clan trumpiano, se non proprio attorno al collo del presidente. Le ultime notizie parlano di un mandato ottenuto dal procuratore speciale Mueller per guardare negli affari con la Russia della corporation che porta il nome del presidente. Più notizie, testimoni, rami dell’inchiesta vengono fuori e più Trump si comporta come un eroe tragico shakespiriano inseguito da fantasmi notturni che lo fanno twittare. La cosa non aiuta i repubblicani. Se a Trump di notte appare Mueller, probabilmente allo speaker della camera Paul Ryan appare Randy Bryce, veterano e metalmeccanico sindacalizzato che lo sfiderà a novembre nel suo collegio in Wisconsin.

 

Trump e i suoi Stati isolati d’America. Con Guido Moltedo,

A cura di Martina Toti
Ellemondo 16/03/2018

 

L’agnello che fa tremare Trump e i repubblicani ultima modifica: 2018-03-16T17:00:36+01:00 da MARTINO MAZZONIS
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