Quando la storia viene usata per giustificare pagine di guerra è bene che scatti l’allarme rosso. Perché quella storia può ripetersi e trasformare il Medio Oriente in fiamme in una polveriera (nucleare) pronta ad esplodere. È ciò che sta accadendo nel nord-est della Siria, dov’è in corso dal 20 gennaio l’offensiva delle forze armate turche contro le milizie curde siriane dell’Ypg. La giustificazione ufficiale di Ankara è che si tratta di un’operazione di contrasto al terrorismo, visto che il presidente Recep Tayyip Erdoğan considera le milizie dell’Ypg alla stregua dell’Isis, nonostante i peshmerga curdi siano stati in prima linea nella liberazione di Raqqa, l’ex capitale del “Califfato islamico” in Siria. Nella veste dell’“Atatürk del Terzo millennio”, Erdoğan commenta così l’entrata delle forze speciali dell’esercito turco nel centro di Afrin:
Abbiamo dato una lezione a coloro che hanno tentato di assediarci nella battaglia di Çanakkale, e ora stiamo facendo lo stesso con quelli che stanno prendendo di mira la nostra stabilità e il nostro futuro con la creazione di uno stato terrorista attraverso i nostri confini.
Ma Afrin è solo l’inizio. Perché il vero obiettivo strategico perseguito da Erdoğan è molto più ambizioso e riguarda la creazione di un protettorato ottomano nella regione frontaliera, la cui gestione sarà affidata agli alleati dell’Esercito libero siriano (Els). E tutto questo con l’assenso di Putin IV, fresco trionfatore delle elezioni presidenziali nella Federazione russa. Non c’è nulla di contingente o di temporaneo nell’avanzata turca, così come nel rafforzamento della presenza militare iraniana o nel consolidamento della struttura militare russa nel porto di Tartus, fondamentale per garantire alla marina russa lo sbocco nel Mediterraneo.
Le operazioni militari di Ankara sono l’espressione sul campo di un disegno geopolitico destinato a modificare non solo il volto della Siria, che non è quello di Bashar al-Assad, ma dell’intero Medio Oriente. Afrin ci dice che si stanno determinando le condizioni per una “Jalta mediorientale” sull’asse Mosca-Ankara-Teheran.
Rinvigorito dalla vittoria ad Afrin, il presidente Erdoğan potrebbe essere tentato di estendere la sua operazione verso ovest, verso Manbij, come ha sottolineato più volte. Tuttavia, deve tener conto delle posizioni del suo partner nella Nato, gli Stati Uniti, che sono presenti a Manbij, a sostegno dei curdi, e che hanno già ripetutamente sottolineato che non pensano di andarsene. Gli Stati Uniti “devono ritirarsi immediatamente da Manbij” ha detto il ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu all’inizio dell’operazione. “Gli Stati Uniti devono rompere completamente con l’Ypg, recuperare le armi che hanno dato loro”, ha aggiunto. Una richiesta che Washington finge di ascoltare ma che nei fatti ignora.
Se gli americani non hanno mai considerato Afrin come parte della loro area di influenza, la situazione dovrebbe essere diversa a Manbij, dove le forze statunitensi sono state stanziate da quando l’Isis ha conquistato la città nel 2016. La questione di un accordo tra Ankara e Washington in merito al problema sarebbe stata sollevata a fine gennaio, secondo fonti statunitensi e turche. Qualsiasi attacco contro i curdi provocherebbe una risposta delle truppe statunitensi sul terreno, avrebbe avvertito Washington. Ma poiché i due alleati della Nato vogliono evitare qualsiasi scontro che sarebbe disastroso per la regione, Washington potrebbe accettare di spostare i suoi alleati curdi a est dell’Eufrate per un’amministrazione congiunta di Manbij. In cambio, gli americani potrebbero così continuare a sfruttare la base militare turca di Incirlik per la lotta contro l’Isis.
Con “l’occupazione” turca di Afrin “tutto il nord della Siria è in pericolo”, denuncia un alto dirigente curdo-siriano, Aldar Xelil, all’indomani dell’ingresso nella città dei soldati di Ankara e delle milizie locali sue alleate, due mesi dopo l’avvio dell’operazione militare “Ramoscello d’ulivo”. Secondo Xelil, Erdoğan punta a ristabilire l’influenza in Siria che fu dell’impero ottomano. Secondo fonti locali curde e l’Osservatorio siriano per i diritti umani, Afrin è ormai quasi interamente sotto il controllo turco, anche se permangono alcune sacche di resistenza di combattenti curdi dell’Ypg.
Dopo l’ingresso delle truppe di Ankara ad Afrin “la guerra contro l’occupazione turca entra in una nuova fase”, afferma un alto funzionario curdo-siriano, Othman Sheikh Issa. D’ora in avanti si passerà dallo scontro diretto alla guerriglia: “colpire e scappare”, fino alla liberazione, ha aggiunto, precisando che le milizie curde restano presenti nella zona. Le milizie curde che resistono in città, ha avvertito Issa, “si trasformeranno in un incubo continuo” per i turchi e le truppe siriane loro alleate. In precedenza, altre fonti curde e attivisti avevano riferito che la maggior parte dei miliziani curdi si erano ritirati da Afrin. Ma i dirigenti curdi non nascondono la loro ferma intenzione di resistere all’offensiva turca puntando sul loro ruolo centrale nella lotta contro I’Isis e nel rafforzamento dei legami con il regime.

Mike Pompeo
Anche per questo motivo, racconta Lorenzo Cremonesi inviato di guerra del Corriere della Sera, pochi giorni fa
ci hanno fatto visitare il Centro dell’antiterrorismo nella base della loro intelligence a Derik, sulla strada tra Qamishli e il confine iracheno. “Abbiamo prove incontrovertibili sul fatto che i militari turchi stanno utilizzando pericolosi militanti di Isis inquadrati nelle milizie che combattono contro di noi ad Afrin. Abbiamo mostrato ad alcuni tra i 5.000 jihadisti chiusi nelle nostre carceri i filmati delle ultime battaglie e loro hanno riconosciuto con certezza almeno 27 loro compagni di Isis con le unità turche”, racconta il 40enne Aval Adnan, massimo responsabile a Derik.
Diplomazia e armi vanno a braccetto in Siria. Ma qualcosa di importante è accaduto qualche giorno fa a Washington, con il dimissionamento operato da Trump del troppo moderato segretario di Stato, Rex Tillerson. Al suo posto, Donald Trump ha voluto l’ex capo della Cia, Mike Pompeo, un duro, in piena sintonia con i falchi del Pentagono. È stata la Cia ad addestrare e armare i miliziani dell’Ypg così come aveva fatto con i ribelli dell’Els prima che entrassero nell’orbita turca. D’altro canto, Trump sa che il rafforzamento dell’asse russo-turco-iraniana viene vista come una minaccia mortale per i due più fedeli alleati degli Usa in Medio Oriente: Israele e Arabia Saudita.
Sia Gerusalemme che Riad temono più di ogni altra cosa il consolidamento della mezzaluna sciita sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut, e spingono perché alla fine di marzo Trump annunci la decisione dell’America di annullare l’accordo sul nucleare con Teheran. Per questo l’eventuale, probabile, annunciata avanzata turca verso Manbij acquista una valenza che va molto al di là della cacciata dei curdi siriani. Sottostare al diktat di Erdoğan vorrebbe dire, nell’ottica dell’amministrazione Trump, non solo scaricare un alleato nella lotta all’Isis, tutt’altro che conclusa, ma dare un segnale di debolezza che potrebbe avere pesanti ricadute per gli interessi americani nella regione. Ecco perché, “America first” passa oggi anche per Manbij.

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