Rivale di Julien Benda, Albert Thibaudet, osserva Antoine Compagnon, autore de “Gli antimoderni da Joseph de Maistre a Roland Barthes” (Neri Pozza, 2017, ed. or. 2005), è una di quelle figure che
oggi ci mancano: figure non strettamente specializzate, libere, vigorose, generose, esuberanti, sempre vigili e curiose di tutto – in una parola, felici (ivi, p. 247).
“Critico letterario di professione, che circolava tra i libri con la buona coscienza e l’epicureismo attivo di un vignaiolo tra i suoi vitigni” (Thibaudet, “Les Princes lorrains”, 1924, p. 83), Thibaudet, oggi dimenticato (ma vedi di Michel Leymarie “Albert Thibaudet, l’outsider du dedans”, 2006), fu anche, secondo René Rémond, il fondatore della storia delle idee politiche.
“Assolutamente insensibile agli onori”, così scriveva Jean Paulhan, direttore della Nouvelle Revue Française (NRF), cui il Nostro fu assiduo collaboratore, Thibaudet avrebbe rivendicato
il diritto […], l’obbligo di non scegliere, di mantenere lo spirito critico nello stato di grazia del proprio gioco puro (NRF, agosto 1927);
rifiuto di scegliere, quindi, “non per indolenza, ma con la decisione energica di non decidere” (NRF, ottobre 1926). Estraneo gli era infatti “quel volere che giudica, decide, esclude” (Thibaudet, “Les Princes lorrains”, p. 84).
Thibaudet sarebbe così divenuto verso i cinquant’anni critico, nient’affatto militante, della politica, “non neutrale per abdicazione, ma […] per posizione” (“La République des professeurs”, 1927, p. 8), posizione che, sola, permetteva il “liberalismo integrale” di chi “vivrà il proprio liberalismo come qualcosa di precario, e all’occorrenza sarà liberale contro di esso” (“Les Idées politiques de la France”, 1932, p. 240); posizione che se per un uomo politico era una chimera, era invece una precisa consegna per il chierico “puro”, che ha “il dovere di essere senza partito” (“En lisant les ‘Mémoires d’un touriste'”, NRF, dicembre 1932).
Inevitabile allora che questo “vagabondaggio intellettuale”, questo “andar per farfalle” (Grenier, “Thibaudet politique et moraliste”, NRF. Luglio 1936), avesse portato Thibaudet all’inaudito, vale a dire all’inconcepibile disinteresse per l’affaire Dreyfus, “anche in piena dreyfusomachia” (“Les Idées de Charles Maurras”, 1920, p. 83) e a ignorare fascismo e comunismo nelle citate “Idées politiques” (cfr. Compagnon, p. 279).
Altrettanto inevitabile l’assenza di seguaci, che questi in genere
amano maestri meno sottili, più isterici, capaci di denigrare e di decidere” (ivi, p. 274),
e la distanza da un Benda che dai cieli e dalla torre d’avorio degli universali e della pura speculazione si sarebbe in seguito calato nella trincea dell’antifascismo militante.
Individuare quale sia, tra i due, l’autore cui prestare più attenzione, quale quello i cui lavori debbano rimanere a portata di mano dipende anche dallo spirito del tempo. Oggi, forse, quando chiamate alle armi e squilli di tromba si odono ad ogni connessione social, l’invito thibaudetiano alla non scelta non per, come ricordato, abdicazione ma per convinzione risulta forse essere quello più prezioso.

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