L‘arresto da parte della polizia stradale tedesca di Carles Puigdemont riporta all’attenzione delle cronache internazionali la vicenda catalana. Puigdemont tornava dalla Finlandia, dove aveva tenuto una conferenza, e gli agenti del Cni, – Centro Nacional de Inteligencia, i servizi segreti spagnoli – che lo seguono da quando si auto esiliò in Belgio hanno approfittato dell’occasione d’oro, segnalando ai tedeschi il momento di adempiere agli obblighi del mandato di cattura europeo. La Germania è infatti un paese che ha nel suo codice penale reati simili a quelli contestati al politico catalano, sedizione e ribellione, di modo che l’eventuale estradizione non sarebbe limitata a reati minori, come sarebbe invece avvenuto in altre nazioni europee, come il Belgio.
Da questo motivo – evitare che Puigdemont potesse essere giudicato solo per reati secondari – è dipeso il balletto attuato da Pablo Llarena, il giudice del Tribunale supremo spagnolo che segue la vicenda. Llarena emise il primo ordine di cattura europeo contro Puigdemont il 3 novembre scorso, lo ritirò il 6 dicembre per poi riemetterlo venerdì scorso, assieme a altri euro-ordini di arresto contro i quattro ex-ministri di Puigdemont auto esiliatosi con lui a Bruxelles e a un mandato internazionale nei confronti di Marta Rovira, segretaria generale di Esquerra republicana de Catalunya (Erc) e deputata del Parlamento catalano. Rovira doveva presentarsi con altri davanti al giudice ma, prevedendo le intenzioni di Llarena, ha preferito fuggire in Svizzera. In effetti il giudice ha in quell’occasione mandato al carcere preventivo cinque esponenti politici catalani: l’ex presidente del Parlamento catalano, Carme Forcadell, e gli ex consiglieri (ministri della giunta di governo autonomica) Jordi Turull, che è anche candidato a essere il prossimo presidente autonomico, Raül Romeva, Josep Rull e Dolors Bassa.
L’arresto piomba sullo stallo in cui si trova dalle elezioni del 21 dicembre la politica catalana. Malgrado la vittoria, gli indipendentisti non sono in grado di formare un governo, anche perché alcuni eletti vengono tenuti in carcere non consentendo l’attuazione del mandato popolare. Le divisioni tra e attraverso gli schieramenti sono esplose.
Gli ex catalanisti moderati del Partito democratico europeo catalano si dividono tra chi vorrebbe, probabilmente ormai troppo tardi, rinormalizzare i rapporti con Madrid e il nucleo attorno a Puigdemont, che è sempre stato uno dei pochi veri indipendentisti del catalanismo. Erc, il cui massimo rappresentante Oriol Junqueras è in carcere dal 2 novembre, ha frenato sull’unilateralismo. Colpita dalla pressione giudiziaria e dopo essersi vista superare dalla lista di Puigdemont, Junts pel sì che ha ottimamente capitalizzato la repressione madrilena e la fuga del suo leader, ha rotto il fronte apparentemente compatto degli indipendentisti.
A spingere resta Puigdemont e gli anticapitalisti della Candidatura di unitat popular (Cup), ma divisioni e arresti rendono difficile la formazione di un governo. Un esecutivo che però molti iniziano a vedere come necessario. C’è tempo fino al 22 maggio per vararlo e evitare nuove elezioni dalle quali potrebbe scaturire una maggioranza anticatalanista, per la prima volta nella storia dell’Autonomia. Ciudadanos, che è il primo partito, con un nuovo successo potrebbe rompere gli indugi di molti e ottenere i seggi per formare il governo.
Il pendolo oscilla tra la radicalizzazione dello scontro – e i primi incidenti di piazza di questi giorni fanno temere che possa accadere – e la ricerca di un meccanismo che riporti il confronto nell’alveo della politica. In questo senso potrebbe delinearsi una maggioranza ampia che metta in gioco anche i Comuns di Ada Colau, il cui governo della città di Barcellona e finora stato molto indebolito dalla deriva indipendentista, e i socialisti catalani del Psc, che con molte difficoltà cercano una via intermedia tra l’acquiescenza del Psoe al disegno repressivo del governo del Pp e la necessità di tornare alla politica, con la proposta di un indulto per le persone incarcerate. Un percorso complicato che necessariamente costerebbe il prezzo di nuove divisioni all’interno dei diversi schieramenti.
La detenzione di Puigdemont rappresenta un salto di qualità nel conflitto tra Madrid e la Catalogna, non tanto dal punto di vista della repressione – che non è mai cessata e anzi ha visto una continua escalation – quanto perché coinvolge definitivamente l’Europa nella vicenda. Un’Europa che, non volendo affrontare una crisi di così ampie proporzioni al suo interno, si era finora rifugiata in una comoda accettazione acritica della versione di Madrid. Adesso, invece, toccherà a un tribunale tedesco affrontare in punto di diritto la questione e, per quanto non spetterà certo a quella corte valutare la congruità delle accuse ma solo la loro pertinenza alle norme che regolano l’euro-ordine di cattura, al centro del dibattimento ci sarà certamente la narrazione che ha accompagnato tutta la crisi catalana.
Potrebbe essere questa un’occasione per iniziare a rompere la tenaglia di bugie e disprezzo delle regole democratiche e della separazione fra poteri che ha caratterizzato fin dall’inizio l’azione dei protagonisti in questa vicenda. Oltre che smuovere un’Europa che ha finora evitato di entrare nel merito, preferendo premiare il quieto vivere e le convenienze dell’asse politico tra Germania e Spagna, con la seconda utile e subalterna alleata di Berlino nelle prossime nomine europee, la Banca centrale su tutte.
Dalle colonne digitali di ytali abbiamo sempre tentato di tenere saldamente la barra in direzione dell’analisi dei fatti. Abbiamo ravvisato la contraddizione di chi ha deciso di erodere la democrazia in nome della democrazia, dal varo della Legge di transitorietà, che doveva regolare lo svolgimento dello pseudo referendum e l’eventuale secessione dalla Spagna, fatta dal Parlamento catalano in spregio delle sue stesse norme di garanzia a tutela delle minoranze, alla decisione di Madrid di reprimere militarmente una consultazione come il referendum del primo ottobre che, privata di ogni valore legale, era ormai solo una semplice iniziativa simbolica di parte.
Abbiamo raccontato dell’irresponsabilità della politica catalana che non ha mai dichiarato con atto politico e formale nessuna indipendenza né proclamato nessuna repubblica ma che ha detto all’opinione pubblica catalana e spagnola che lo aveva fatto, mettendo in scena la menzogna nella stolta convinzione di alzare il prezzo per ritornare all’eterno tavolo della trattativa con Madrid. Dell’esecutivo spagnolo che, invece di scegliere la responsabilità di governo, ha accolto con favore quella menzogna rilanciandola con la scelta di percorrere la strada giudiziaria, utilizzando gli strumenti più ambigui di un codice ancora in alcune sue parti lontano dalla civiltà giuridica europea, come quei reati di sedizione e ribellione, dai confini vaghi e incerti, che vengono contestati ai politici catalani come si fece col tentato di golpe Tejero – quello sì attuato con la violenza delle armi e con l’organizzata sedizione per il rovesciamento delle istituzioni democratiche.
Abbiamo provato a spiegarci il perché di questa deriva, che rischia di travolgere la democrazia spagnola, col tentativo di ceti politici di affrontare così la grande crisi che, come molte democrazie rappresentative europee, sta vivendo il sistema spagnolo dei partiti e la stessa struttura costituzionale democratica, quella Spagna delle Autonomie con cui la Transizione provò a rispondere alla caratteristica plurinazionale del Regno di Spagna.
Abbiamo evidenziato il ruolo della stampa, principalmente spagnola ma anche internazionale, che da cane da guardia della democrazia è ormai ridotta a sintomo della sua crisi, preferendo schierarsi con l’uno o l’altro dei due contendenti – in Catalogna, la rete dei media sovvenzionati dalla pubblica amministrazione; nel resto del paese, le testate che ormai fanno riferimento agli interessi del sistema finanziario che le fa sopravvivere, dimentiche dei doveri deontologici – anziché smascherare il pericoloso gioco che portano avanti.
Il discorso pubblico spagnolo è ormai incistato di bugie, automatismi, irresponsabilità e subordinato alle rese dei conti nei diversi campi. Quella tra Erc e quel che restava del catalanismo moderato, che ha preso la forma del Procés – il processo verso la sovranità con cui dal 2012 il catalanismo moderato ha tentato di contrastare la sua caduta di credibilità per la corruzione e la crescita dei repubblicani, dinamica la cui escalation indipendentista capitanata da Puigdemont ha consentito a quest’ultimo di travolgere i vecchi equilibri catalanisti.
Quella nelle destre spagnole, col Pp che vede erodersi il suo consenso in favore degli arancioni di Ciudadanos, moderni, presentabili e ora corteggiati dal potere che conta che inizia a vedere in loro un’alternativa reale all’apparato vecchio e corrotto dei popolari. La resa dei conti a sinistra, col Psoe che reagisce all’attacco di Podemos rafforzando la sua idea di Spagna castiglianista e dimenticando le sue, antiche e ora quanto mai attuali, posizioni federaliste; i viola che hanno preferito seguire l’illusione del sorpasso sui socialisti anziché provare a governare con loro quando ne ebbero l’occasione.
Per questo è difficile immaginare che la Spagna da sola trovi la forza di liberarsi della deriva che sta trascinando a fondo la sua democrazia, di rompere la tenaglia tra menzogna e repressione che la sta schiacciando. L’internalizzazione della vicenda potrebbe aiutare a sollevare i veli di mistificazione calati su questa difficilissima crisi. Un giudice, a Berlino (in verità nello Schleswig-Holstein…), potrebbe essere il sassolino che inizia a bloccare l’ingranaggio delle menzogne e della repressione. Costringendo la Spagna a tornare alla realtà delle cose, a vedere i rischi a cui il paese è sottoposto dalle dissennate condotte delle sue élite.

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