La sinistra italiana ricominci da Emma González

Dopo il KO del 4 marzo. Ci si può rialzare, anche meditando su quel che accade oltreoceano?
MARTINO MAZZONIS
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La foto delle guance di Emma González solcate da lacrime di dolore e rabbia che grida la sua rabbia dopo la strage nella sua scuola ci è piaciuta un sacco. Specie a noi pugili suonati di sinistra, reduci da un K.O. di quelli che segnano la fine di una carriera, preso contro avversari che nelle conferenze stampa prima del match abbiamo ridicolizzato come faceva Mohammed Ali, o di cui abbiamo detto che sono scorretti, non democratici e pericolosi per il Paese.

Le botte le hanno prese tutti: PaP che nel tracollo generale non ha intercettato nulla, ma gioisce; LeU, indecisa su cosa essere, cosa dire, dove andare e come; il Pd che strizza l’occhio al centro perché nella storia recente della nobile arte elettorale c’è scritto che è al centro del ring che si vince. Proprio come al centro vinceva quel campione britannico con le orecchie a sventola. Nel frattempo però anche lui è invecchiato e nessuno lo vuole più invitare nemmeno a salutare prima del match. Il Pd al governo, ideologico 4.0 e con lo sguardo rivolto al passato, è stato incapace di ascoltare e capire quanto il Paese stesse male. Gli altri non hanno saputo fare nulla per interpretare, dare voce, rispondere a quel malessere. O almeno a quella parte del malessere che non vorrebbe sparare sui gommoni e darsi all’autarchia.

Prima della #MarchForOurLives e dell’entusiasmo social per i ragazzi che mettono in difficoltà Trump, a sinistra avevamo usato il mouse per entusiasmarci per tante altre cose: il milione di donne che per due volte ha marciato per difendere diritti conquistati molti anni fa, gli avvocati e i cittadini corsi negli aeroporti a proteggere le vittime del muslim ban, la lotta soprattutto pacifica dei neri stanchi di venire uccisi, fermati, picchiati in strada da autorità di polizia piene di pregiudizi nei loro confronti.

Meno fervore hanno suscitato in noi italiani della sinistra social le battaglie dei giovani che rischiano di venire espulsi perché, pur essendo cresciuti negli Usa, sono entrati clandestinamente da bambini, o le mobilitazioni per il salario minimo a quindici dollari l’ora. I giovani Dreamers, tra l’altro, somigliano terribilmente agli ottocentomila dello ius soli, una partita persa a tavolino dalla sinistra italiana. Il K.O. elettorale mostra come aver abbandonato il campo non abbia cambiato di una virgola il risultato.

Ma se invece di passare il tempo a selezionare emoji che fanno grrrr, love e lacrimoni cercassimo di capire quei movimenti americani (o altre cose che succedono e che hanno funzionato)? Da dove vengono? Cosa sono? Che relazione c’è tra essi e la politica istituzionale? Proviamo a chiedercelo ricordando che gli Usa sono una federazione e che quindi alcune battaglie si vincono anche in un solo Stato, per poi divenire generali e che il sistema politico istituzionale rigidamente bipolare implica dei rapporti più chiari con gli eletti.

1 Un primo aspetto per capire quei movimenti è una cultura della cittadinanza e della comunità e del tuo ruolo in essa. Fare la propria parte è un pezzo del cerchio completo che implica la richiesta alle autorità di fare la loro. Vale per vari livelli della cittadinanza: dalla raccolta differenziata, alle strisce blu, dall’associazione per il quartiere, alla campagna elettorale. In Italia, che pure è un Paese di grande tradizione di cittadinanza attiva, abbiamo un po’ perso questa capacità di vicinanza. Ma sappiamo benissimo indignarci sui social contro le istituzioni che non fanno il loro dovere.

2 Un secondo aspetto che segna la distanza tra Italia e Usa riguarda il mood, l’umore: con l’eccezione del tentativo di Genova 2001, dal 1989 in poi, la sinistra italiana è culturalmente sconfitta e piagnona. Oppure arrogante e non di sinistra. Negli Usa, dopo la sconfitta peggiore e più inaspettata il mood è ripartiamo, facciamo cose, mandiamoli a casa. Una sinistra depressa, convinta che sia tutto finito ma che si ripresenta a chiedere voti dopo aver dormito, essersi dilaniata al suo interno o dopo aver promesso sfaceli e aver fatto politiche bocconiane, non conquisterà nessun cuore. Ai suoi, Salvini suona allegro anche quando parla di ruspe.

“Il potere del popolo [people] è più forte delle persone [people] al potere” dell’illustratrice e filmmaker @VashtiHarrison

Torniamo all’elenco americano: donne, afroamericani, immigrati e appartenenti alla minoranza ispanica, studenti, lavoratori precari o sotto pagati nel mercato crescente dei servizi a bassa qualifica, difesa della riforma sanitaria. Grandi temi, diritti civili e diritti sociali. #BlackLivesMatter nasce in risposta alla brutalità poliziesca ma sa tornare a imporre la questione della segregazione in generale, comincia a Ferguson nell’agosto 2014. Quasi quattro anni fa.

3 Nel 2012 passai una giornata con un gruppo di lavoratori messicani che occupavano il loro ristorante a Manhattan. Stavano per essere licenziati per il capriccio di un padroncino, erano sostenuti dalla SEIU, il sindacato dei servizi e il racconto autobiografico vale perché aiuta a ricordare come queste campagne non siano stratagemmi per guadagnare consenso, ma abbiano tempi lunghi e richiedano costanza (terza caratteristica). Da quanto tempo sentite parlare di casta e ruspe come parole d’ordine unificanti che significano, tradotte, lotta all’immigrazione/lotta alla corruzione dilagante? E se pensate alla sinistra che parola vi viene in mente? Solo un generico e malaugurante “riforme” (del mercato del lavoro, delle pensioni, istituzionali) o controriforme (nel caso della sinistra/sinistra).

Quelle degli Stati Uniti sono forme della cittadinanza attiva e della organizzazione del lavoro che hanno momenti carsici e, dietro, campagne e gruppi che fanno rete nazionale e locale 365 giorni l’anno. E che usano il Web e i social network come strumento di organizzazione, mobilitazione, rilancio. Non come muro del pianto. A destra è lo stesso: le chiese evangeliche, le talk radio, i siti di informazione, i social, ci sono e funzionano anche per i più conservatori tra i conservatori – in forme diverse meno partecipate, più delegate, ma funzionano.

Tutte queste campagne contano sulla partecipazione e il lavoro volontario, sul community organizing (quella cosa diventata famosa perché Obama l’ha fatta per qualche tempo nel South Side di Chicago), su fondi raccolti, su spazi messi a disposizione. Alcune di queste campagne ottengono risultati importanti, altre perdono, altre difendono diritti acquisiti. Ciascuna di queste campagne si relaziona con la politica coinvolgendola, facendo pressioni, andando a disturbare gli eventi dei rappresentanti locali quando tornano a casa da Washington. Il community organizing è anche una scuola di cittadinanza: funziona come leva per la partecipazione politica degli esclusi, sui singoli temi locali che li riguardano o come invito a registrarsi al voto e a votare in anni elettorali.

#MarchForOurLives in Alaska

Queste campagne sono anche un modo per orientare la politica e mettere temi in agenda: tutto questo grassroots non può che favorire un partito democratico più capace di rispondere su alcuni temi senza balbettare e farsi impallinare per via delle proprie ambiguità. E il Tea Party ha indubbiamente determinato lo spostamento a destra del Grand Old Party e, con il tempo, la vittoria di Trump.

Il rapporto tra partecipazione sociale e istituzioni è per sua natura intricato. Di recente, in Italia, si può dire che abbia leggermente funzionato, con un ritardo e una timidezza epocali, sulla questione delle unioni civili. Ascolto c’è stato anche nel caso della legge sul caporalato agricolo: qui i community organizer, le figure che lo hanno denunciato (come il mai abbastanza pianto Alessandro Leogrande), i sindacati, hanno aperto una breccia. Lo stesso si può dire, del movimento che ha prodotto il sequestro dei beni di mafia e il loro riuso.

#MarchforOurLives a Honolulu, Hawaii

Ma quante di queste cose sono mainstream per la sinistra? È capace di inventarne, lanciarne una sua che parli a parti imponenti della popolazione? E quanto è capace la sinistra di impegnarsi per dare slancio, sponda, risorse alle cose che succedono? A Genova nel 2001 si parlò di beni comuni, spesa militare, precariato, commercio internazionale, migrazioni, riscaldamento del pianeta. Tutti temi in agenda e senza risposta quasi vent’anni dopo. La Cgil annullò la propria partecipazione e la sinistra moderata fischiettò e prese distanze. Non è da escludere che quel gran disastro e le non risposte negli anni successivi siano uno dei semi che ha generato il primo grillismo.

Non è da grandi e piccole questioni locali e nazionali che si parte per riconquistare il consenso? Non è attraverso anni di meet up e di ronde che M5S e la Lega hanno costruito la loro identità? Per la sinistra sarà più complicato, certo: alcune delle cose di cui dovrebbe occuparsi oggi sono impopolari come il matrimonio gay in Texas negli anni Novanta. O le otto ore di lavoro in risaia nel 1901. Ma se è vero che a sinistra “4 marzo 2018” rischia di diventare un modo di dire come si è detto “una Caporetto” per cent’anni, allora sarebbe il caso di cominciare a imparare, studiare in che modo ci si organizza altrove, imparare dalle organizzazioni politiche e sociali che hanno saputo combinare cose. Meno ragionamenti sulle alleanze e su chi vince congressi privi di afflato: oggi il problema della sinistra è molto cosa, certo, ma è anche molto come.

La sinistra italiana ricominci da Emma González ultima modifica: 2018-03-29T12:14:55+02:00 da MARTINO MAZZONIS
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2 commenti

Newsletter n°548 – 5 aprile 2018 – L'Unità punto news 6 Aprile 2018 a 6:01

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