Ne uccide di più la solitudine…

Alicia Giménez-Bartlett in libreria con "Mio caro serial killer" (Sellerio), la nuova indagine della poliziotta spagnola Petra Delicado, sulle tracce di un plurifemminicida.
ROBERTO ELLERO
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Al pari di altri colleghi di rango (da Simenon a Mankell, da Vázquez Montalban a Camilleri), Alicia Giménez-Bartlett vanta una doppia esistenza letteraria: poliziesco-seriale e per così dire autoriale. Su questo secondo versante, non privo esso stesso di venature noir, rimarchevoli di recente “Dove nessuno ti troverà” (“Donde nadie te encuentre”, 2011), indimenticabile ritratto de “La Pastora”, donna e uomo insieme, partigiana e bandito, indomabile combattente della guerra civile spagnola, fra le montagne intorno all’Ebro, ben oltre la sconfitta della Repubblica nel 1939, e “Uomini nudi” (“Hombres desnudos”, 2016), parafrasi della lotta di classe negli anni della precarizzazione sociale, donne benestanti in cerca di svago e giovani proletari (o proletarizzati) sulla scena degli strip-tease al maschile, con risvolti crudeli ed esiti struggenti. Talmente consapevole del proprio femminismo la nostra scrittrice – classe 1951, spagnola di Almansa, da quarant’anni a Barcellona – da infischiarsene altamente del politicamente corretto e delle sue imbelli tirannie del linguaggio e magari della doppia coscienza, menando fendenti in luogo di carezze quando necessario, evitando ogni facile manicheismo e distribuendo pietas, se proprio si deve, soltanto dove e a chi merita. Perché umani pur sempre siamo.

Chi abbia conosciuto anche il versante seriale della scrittrice – una decina di romanzi e vari racconti dalla metà degli anni Novanta in qua, primo titolo “Riti di morte” (“Ritos de muerte”) nel 1996 – non faticherà a ritrovare tali tratti caratteriali, e la franchezza prima di ogni altra cosa, nel personaggio di Petra Delicado, ossimoro vivente sin dal nome, durezza e sensibilità, l’ispettrice della Policía Nacional che in compagnia dell’inseparabile vice Fermín Garzón – sbirro vecchia maniera, persino malcelate nostalgie franchiste agli inizi, gran gaudente comunque – indaga sui delitti che di volta in volta investono Barcellona. Vent’anni non sono uno scherzo, un’intera generazione e cambiamenti che definire epocali è persino poco, quando tutto sembra correre veloce.

Le indagini della polizia risentono delle tendenze più deleterie dei tempi. L’ansia, il mito dell’efficienza a tutti i costi, l’idea che le cose vadano fatte a caldo altrimenti non servono. Anche noi sentivamo la tigre della velocità soffiarci sul collo.

Sino ad ieri, Petra e Férmin sembravano non avere età, immobili nel tempo a dispetto dell’anagrafe, come spesso accade ai personaggi letterari, per occulta convenzione d’uso con il lettore. Nel più recente capitolo, dal titolo Mio caro serial killer (Mi querido asesino en serie, 2017, in edizione italiana, come tutti gli altri lavori della scrittrice, per Sellerio, traduzione di Maria Nicola) non si bara invece più con gli anni, entrambi non lontani dalla pensione, che Férmin magari esorcizza con una di quelle sue consuete colazioni forti alla Jarra de Oro, a base di birrette e chorizo. Petra no, la mattina che per la prima volta si vede vecchia allo specchio capisce bene che sta per farsi quell’ora. A meno che la parrucchiera, in un lampo, non faccia un miracolo dei suoi. Petra in fondo ha il dono dell’ironia ed è un’inguaribile progressista: pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, si diceva una volta, in dosi ben miscelate. E pazienza per il commissario Coronas, che la starà cercando per gli uffici…

Quanto alla figura dell’omicida seriale, si addice di più ai Paesi anglosassoni e nordici. E dunque a quelle letterature, che infatti ne sono zeppe, con tanto di specializzati profiler. In Spagna e nelle contrade del Sud non ve n’è grande traccia. Ecco perché quando nel romanzo muore la prima donna, pugnalata e orribilmente sfregiata al volto, il pensiero va ad uno di quei singoli femminicidi di cui purtroppo sono piene anche le cronache di Spagna: passioni deviate, amori non corrisposti, turbe dell’uomo tradito, il consueto armamentario psicologico che accompagna il macabro tramonto del maschio alfa (o presunto tale) in crisi di identità. Ma poi alla prima vittima ne seguono altre, tutte uccise allo stesso modo e senza lasciare prove, di diversa età ma sempre sole, donne banalmente normali, accompagnate dall’assassino con patetiche lettere d’addio lasciate accanto ai cadaveri. E dunque femminicidio plurimo, seriale.

Alicia Giménez-Bartlett

Petra e Fermín indagano, stavolta non da soli. Ai piani alti, per bilancini politici facilmente comprensibili col senno “secessionista” di oggi (ma il romanzo è stato scritto prima del fatidico referendum separatista), decidono che ad occuparsi dell’inchiesta debba essere anche la polizia autonoma catalana, e dunque i celebri Mossos de Esquadra, per l’occasione rappresentati da un giovane ispettore, Roberto Fraile, cupo e diligente, gran lavoratore senza un pizzico di ironia, lontanissimo dagli standard goderecci e disincantati dei nostri. E si capiranno bene poi i motivi di tanta tristezza e di tanto accanimento professionale. A lui, per di più, scorno non da poco per Petra, il compito di coordinare le indagini, che condurranno in breve a una di quelle agenzie matrimoniali e di “pubbliche relazioni”, Vida Futura, che infestano Barcellona, consentendo di dare anche un volto e un nome al possibile omicida seriale, un ometto senza pretese che aveva avuto o tentato una relazione con tutte le vittime, uno che colleziona donne come fossero cartoline. Ma siamo appena agli inizi e, come sempre, non tutto è come appare.

Non sarà un’indagine facile. Di più, per ovvi motivi, non possiamo dire. Se non che la consueta abilità di Giménez-Bartlett nell’intrecciare il poliziesco con l’esistenziale trova massima conferma in “Mio caro serial killer”, dove ciascun personaggio è costretto a mettersi a nudo, scoprendo che rivelare le proprie fragilità, con la dovuta ironia, è già un bel passo avanti verso la comprensione di sé e degli altri. Quanto a Barcellona, metropoli del mondo, la città del romanzo sembra in realtà afflitta dalla solitudine, destinata a distorcere la stessa percezione della realtà. Solitarie le vittime, solitari i carnefici, imbevuti del loro egoismo. E la socialità? Fermín, che non ha studiato e viene dalla strada, “il più vecchio e il più rozzo fra tutti e tre”, non avrebbe dubbi: una bella mangiata fra amici, al diavolo il colesterolo. Quasi che il vero antidoto trasgressivo di oggi sia il banale stare insieme di ieri. Sociologia dei poveri ma forse funziona meglio di tante analisi forbite.

Ne uccide di più la solitudine… ultima modifica: 2018-03-29T15:17:35+02:00 da ROBERTO ELLERO
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