Una lunga Striscia di sangue

Gli scontri e le vittime di Gaza nel Land Day raccontano una storia che non nasce ieri ma che si dipana nel corso di decenni e che ha nel sottile territorio controllato da Hamas uno dei suoi più tragici luoghi di attuazione
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Sedici morti, oltre mille e quattrocento feriti. Una popolazione in gabbia, ostaggio di due nemici che si sorreggono l’uno con l’altro, perché, da fronti opposti, conoscono e praticano lo stesso linguaggio: quello della forza. Il sangue versato a Gaza nel Land Day racconta una storia che non nasce ieri ma che si dipana nel corso di decenni e che ha nella Striscia uno dei suoi più tragici luoghi di attuazione.

È la storia di tre guerre, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e a quello della resistenza armata contro l’entità sionista (Hamas). È la storia di punizioni collettive, di undici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell’indirizzare contro l’occupante con la Stella di David, la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo.

Il sangue di Gaza chiama in causa i due nemici che, ognuno per i propri tornaconti, hanno lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. Perché “compromesso” è una parola che non esiste né nel vocabolario politico della destra israeliana né in quello di Hamas.

Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell’altro.
Compromesso significa rinuncia ai disegni della “Grande Israele” come della “Grande Palestina”.
Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno stato indipendente per i palestinesi.

Combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra israeliani e palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante.

Nello schema di Hamas e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo.

La destra israeliana ha bisogno di Hamas per coltivare l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia di una nazione. Quanto ad Hamas, portare ventimila persone allo scontro con l’apparato militare israeliano nella striscia, è un esercizio di potenza, è riaffermare la propria leadership nel variegato fronte della resistenza palestinese. Hamas può al massimo contemplare una hudna (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza.

La destra israeliana, oggi saldamente al potere, non ha solo rimosso la questione palestinese come questione politica, ma è andata oltre, innestando sul vecchio discorso della sicurezza minacciata un impianto ideologico di antica data: quello del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, per il quale Eretz Israel (la terra d’Israele) ha il sopravvento su Medinat Israel (lo stato d’Israele).

In quest’ideologia che si fa pratica di governo, trionfa una visione messianica del ruolo d’Israele e del suo popolo, il popolo eletto. L’affermarsi di questa ideologia segna, a ben vedere, il fallimento storico del pionierismo sionista e dell’idea di Israele come un paese normale che, nel negoziare i propri confini, fa i conti non solo con l’esistenza di un altro popolo in Palestina ma anche e, per certi versi soprattutto, con la “cultura del limite”.

 

Una cultura che l’estremismo non contempla, anzi combatte. E poco o nulla importa che a farne le spese siano milioni di persone costrette a sopravvivere in una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo. Una prigione di nome Gaza. Una prigione che torna a fare notizia quando si fa la conta dei morti, quando torna ad essere un teatro di guerra. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare.

Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità. Ed è nella “normalità” che Gaza muore. Nel silenzio generale, nel disinteresse dei mass media, nella complicità della comunità internazionale, nella pratica disumana e illegale delle punizioni collettive perpetrate da Israele, nel cinico operare di Hamas, Gaza sta morendo.

L’ultimo, documentato grido d’allarme, è stato  lanciato da Oxfam. L’assedio sta privando una popolazione di quasi due milioni di abitanti, il cinquantasei percento dei quali è al di sotto dei diciotto anni, del bene più vitale: l’acqua.

A oltre due anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni degli abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo.

Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata degli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono le persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento.

Basti pensare che il novantacinque per cento della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre quaranta per cento di perdite) non è potabile o perché oltre quaranta mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue.

Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.

Denuncia Paolo Pezzati, policy advisor di Oxfam Italia per le emergenze umanitarie:

Siamo di fronte a un peggioramento esponenziale dell’emergenza idrica a Gaza. La popolazione sta facendo i conti con un sistema di ricostruzione maggior parte dei materiali necessari per le infrastrutture idriche – che sono ritenuti utilizzabili per scopi civili e militari dalla autorità israeliane – si deve attendere tra i sessatuno e i cento giorni per il responso di idoneità e poter entrare a Gaza.

E tutto ciò non deriva da un disastro “naturale”, da un terremoto, da uno tsunami. Questo disastro è il prodotto di un’oppressione che non conosce limiti.

Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Le Nazioni Unite annunciano che entro il 2020 sarà praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’impossibilità per la popolazione di accedere anche a beni essenziali come cibo e, per l’appunto, acqua pulita.

Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il sessantacinque per cento degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.

Circa il novanta per cento degli scolari non sono mai stati fuori da Gaza da quando sono nati.

afferma Pierre Krahenbuhl, il commissario generale dell’Unrwa.

A subire le conseguenze più devastanti di questo stallo sono i più indifesi: i bambini.Sottolinea Chris Gunness portavoce dell’Unrwa:

La nuova generazione di Gaza è traumatizzata, scioccata, brutalizzata. Gli spazi dove giocano sono costellati da ottomila ordigni inesplosi. Le Nazioni Unite stimano che circa cinquecentoquaranta bambini sono stati uccisi durante il conflitto (estate 2014, ndr), molti nelle loro case. Unrwa non ha potuto dare un riparo sicuro a queste persone. Nell’ultima guerra condotta da Israele nella Striscia, le nostre scuole sono state colpite direttamente in sette occasioni. I bambini sono morti nelle classi, e nei campi gioco sotto la bandiera blu dell’Onu. Praticamente tutti i bambini di Gaza contano un famigliare o un amico, ucciso, menomato o ferito durante il conflitto, spesso davanti ai loro occhi. Mille dei tremila bambini feriti durante il conflitto rimarranno disabili per il resto della vita.

Racconta padre Raed Abushalia, già direttore della Caritas di Gerusalemme che opera nella Striscia di Gaza:

Dal 2006 la gente di Gaza è chiusa all’interno della Striscia di trecentoe sessanta chilometri quadrati, la più grande prigione del mondo a cielo aperto! Da allora non hanno che quattro o sei ore di elettricità al giorno. Durante l’estate fa caldissimo! Immaginate due milioni di persone senza elettricità; a Gaza c’è una sola stazione elettrica che non è sufficiente al rifornimento di elettricità per tutta la Striscia. Dunque ricevono tre linee da parte dell’Egitto e sei linee di elettricità da parte di Israele. Adesso questa nuova misura di punizione collettiva ha ridotto la quantità di elettricità fornita da parte israeliana con la scusa che le autorità palestinesi non pagano la fattura. Ma a soffrire sono i civili che sono già poveri e devono vivere in questa situazione che potrebbe veramente distruggere, mettere in ginocchio, tutto il sistema sanitario. 

E prosegue il responsabile della Caritas

Voi dovete sapere che non c’è cibo; dovete sapere che a Gaza secondo l’ultimo rapporto dell’Onu, l’ottanta per cento delle famiglie vive sotto la soglia di povertà. Il quarantasei per cento della popolazione di Gaza è disoccupata e malgrado tutta questa situazione drammatica continuano a mettere al mondo bambini. Quasi cinquemila bambini nascono ogni mese! Questo vuol dire più di cinquantacinque mila bambini all’anno. Una resistenza che io chiamo “demografica”. Allora immaginate tutta questa popolazione che deve vivere in questa situazione, chiusa nella più grande prigione del mondo. La situazione è drammatica e a pagarne il prezzo è questa povera gente.

Questa è la vita a Gaza. E chi governa Israele come chi impone la sua legge nella Striscia, lo sa bene.

Come lo sa bene la comunità internazionale, capace solo di invitare alla moderazione o (l’Onu) di prospettare una commissione d’inchiesta, ripetendo una stanca litania che fa seguito all’esplosione della violenza. Tutti conoscono la realtà di Gaza, la tragedia umana che in essa si consuma. Ma questa consapevolezza non porta alla ricerca di un accordo, di una pace giusta, duratura, tra pari.

Non impone rinunce per ridare speranza.

Costa meno combattere, perché, tanto, a chi vuoi che possa interessare la sorte di due milioni di persone ingabbiate nella prigione chiamata Gaza.

Una lunga Striscia di sangue ultima modifica: 2018-03-31T17:53:01+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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