La nave di Giasone e la nostra Argo

Il nuovo libro di Andrea Marcolongo, "La misura eroica", interpreta quello che fu il mare nostrum come una perenne sfida affrontata dagli Argonauti, metafora della "condizione" umana
MARIO GAZZERI
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Il passato come inesauribile miniera di indizi per capire la Storia dell’età moderna e tentare di indovinare in parte i percorsi di quella futura. Il viaggio come impresa eroica tesa a conoscere e superare se stessi e, come diceva il Poeta, “per seguir virtute e conoscenza”. I miti greci come chiave d’analisi per cercar di capire chi siamo e da dove veniamo. Già l’aveva compreso, da par suo, Sigmund Freud che, su binari diversi ma a tratti involontariamente paralleli a quelli di Henri Bergson, riuscì a rendere “conscio l’inconscio” ridimensionando al contempo il primato positivista che dettava legge alla fine dell’Ottocento.

Se da un lato, la lettura delle opere di Fernand Braudel sul Mediterraneo ha consolidato la nostra conoscenza e la nostra coscienza di europei, il nuovo libro di Andrea Marcolongo (“La misura eroica”, Mondadori, euro 17) interpreta quello che fu il mare nostrum come una perenne sfida affrontata, secondo le fonti, circa cinque secoli dopo Ulisse, dagli Argonauti che sotto la guida di Giasone partirono dalla Tessaglia per la Colchide (sul versante orientale del Mar Nero), alla ricerca del mitico Vello d’oro.

Reduce dal successo internazionale del suo primo libro (“La lingua geniale”), la giovane grecista affronta ora il mito con uno sguardo non condizionato dalla tirannia del tempo (frequenti e non sempre felici le sue incursioni nella contemporaneità) e insistendo molto sui significati lessicali della narrazione, prima di Apollonio Rodio, (il poeta egizio del terzo secolo A.C., trasferitosi poi a Rodi) nel suo poema in quattro libri sull’avventuroso viaggio di Giasone (“Le Argonautiche”) e poi di alcuni poeti latini, in particolare Valerio Flacco, al quale pare si sia in parte ispirato anche Virgilio nella stesura dell’Eneide.

Nella lingua antica del mare, la tempesta che si profila all’orizzonte si dice “fortuna”, per non aver paura, per non considerarla cattiva e straniera ma parte di ogni vita con tutti i suoi imprevisti [spiega l’autrice aggiungendo] in latino, “fortuna” vuol dire prima di tutto “caso”, “sorte” – e dall’espressione “fors sit”, “caso sia” o “sorte vuole”, derivano gli alibi di tutti i nostri “forse”.

La navigazione è rischiosa ma una forza particolare, sconosciuta in terraferma, aiuta i leggendari marinai nei momenti più difficili.

Come la civetta dagli occhi glauchi, simbolo della dea Atena che proteggeva il viaggio degli Argonauti, così Peleo (marito di Antigone) sapeva vedere nel buio e leggere il non detto per poi illuminarlo con le parole.

Sembra di ascoltare un analista freudiano…

Si potrebbe facilmente interpretare la lunga narrazione con le sue tempeste, gli scontri, le riconciliazioni, gli amori nella Colchide e le peripezie del viaggio di ritorno, come una metafora della “vita” umana. Ma, più esattamente, le vicende di Giasone così come quelle di Ulisse nell’Odissea sono la metafora della “condizione” umana. Ognuno di noi, sembra suggerire la Marcolongo, ha a disposizione una sua nave, una sua “Argo” sulla quale imbarcarsi per veleggiare alla ricerca del proprio Vello d’oro. Ognuno di noi può improvvisamente osservare nei cieli il mitico Alcione che preludeva alla fine della tempesta, alla ritrovata calma dei flutti, grazie anche all’intervento di Glauco, umile pastore della Beozia trasformato in benigna divinità marina.

Argonautica di Abraham Ortelius e Balthasar Moretus, 1624.

Ma non si è mai soli e, passati i pericoli del mare e delle guerre, ci viene chiesto dalla vita di confortare chi amiamo come Giasone fa con la moglie Medea, donna dai poteri magici e da una volontà mossa da un indicibile amore che spesso dorme e piange, forse presaga del tradimento del suo uomo. E della terribile decisione di uccidere i figli da lui avuti, esempio senza pari della “tragedia greca” , vicenda ripresa da Euripide e dal filosofo latino Seneca.

Ma ben presto l’angoscia le inviò terribili sogni, portatori di inganno e turbamento,

scrive Apollonio Rodio.

“Le Argonautiche” sono infatti anche una storia di immenso amore, di tradimento e di vendetta. L’amore tra la giovanissima Medea e Giasone è una passione che lascia la ragazza “con la mente priva di parole”. Solo grazie all’amore di Medea (“Medeies, up’eroti”), scrive Apollonio Rodio, il viaggio degli Argonauti si potrà compiere. Da parte sua, Andrea Marcolongo ci ricorda come tra Omero e la narrazione di Apollonio fossero trascorsi sei secoli, i secoli dei lumi della Grecia, i tempi di Sofocle ed Euripide, l’età classica di Pericle e Platone.

Soprattutto tanta poesia era trascorsa da allora, tanto dire l’indicibile dell’uomo in versi.

C’è un filo rosso che unisce, a chi lo sa vedere, il mito di Ulisse a quello degli Argonauti e qualche eco la si può ritrovare nelle “Metamorfosi” di Ovidio e di altri poeti latini fino alla rielaborazione del mito di Ulisse nella “Divina Commedia”, sovrumana sintesi delle passioni dell’universo mondo.

La nave di Giasone e la nostra Argo ultima modifica: 2018-03-31T15:41:21+02:00 da MARIO GAZZERI
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