La spartizione della Siria e la disfatta dell’Occidente

Nel disinteresse di Stati Uniti ed Europa, Russia, Turchia e Iran si spartiscono il Medio Oriente. Sulla pelle dei curdi. E sui morti siriani. Mentre Israele ritrova nemici che credeva scomparsi.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Tre potenze non arabe varano il “Sykes-Picot” del Terzo Milennio. La triade che fa le carte (geografiche) del nuovo Medio Oriente: Russia, Iran, Turchia. È questo il segno dell’evolversi della guerra siriana entrata nell’ottavo anno. Il patto Putin-Rohani-Erdoğan va oltre la spartizione della Siria e investe l’intera regione, intrecciando la diplomazia delle armi con quella degli affari, approfittando dell’inesistenza europea e del disimpegno americano deciso da un presidente impegnato nella guerra dei dazi con il Dragone cinese.

Il patto a tre smonta peraltro alcune narrazioni di comodo con le quali si è inteso, in Occidente, interpretare i conflitti e le crisi che hanno investito il Grande Medio Oriente, la prima delle quali è lo scontro sciiti-sunniti. Mettendo attorno al tavolo la prima potenza sciita (l’Iran) e una delle più agguerrite in quello sunnita (la Turchia), Putin ha dimostrato che in gioco vi sono ben altri interessi e motivazioni da quelle religiose: controllo delle nuove rotte petrolifere e del gas, sbocco sul Mediterraneo, penetrazione in Africa.

La Siria rappresenta un tassello di un puzzle che ha come dimensione il mondo.

La forza della triade rispecchia la debolezza degli altri competitor, primo fra tutti gli Usa.

La missione militare per sradicare l’Isis in Siria sta arrivando velocemente alla fine, con l’Isis quasi completamente distrutto

sancisce una nota della Casa Bianca, che non ha fornito alcuna previsione sui tempi di un ritiro dei soldati americani, dopo che martedì il presidente Donald Trump aveva spiazzato alleati e consiglieri dichiarando che circa duemila militari che partecipano alla lotta contro lo Stato islamico in Siria torneranno a casa presto.

E prosegue la nota:

Gli Usa e i nostri partner restano impegnati a eliminare la piccola presenza dell’Isis che le nostre forze non hanno già sradicato e Washington continuerà a consultarsi con i loro alleati ed amici sui piani futuri.

Qualche ora prima che la Casa Bianca diramasse il comunicato, il Washington Post aveva rivelato che Trump aveva ordinato ai leader militari Usa di prepararsi al ritiro delle truppe, senza però fissare una data. Il tycoon, secondo il quotidiano che cita un alto dirigente dell’amministrazione dopo l’incontro di martedì con i vertici della sicurezza nazionale, non intende prorogare la missione Usa oltre la distruzione dell’Isis e si aspetta che altri paesi, in particolare i paesi arabi della regione, si assumano l’onere di ricostruire le aree stabilizzate, mandando anche loro truppe se necessario.

Nella riunione Trump, secondo ilWashington Post, ha sottolineato che i soldati statunitensi possono essere coinvolti negli attuali addestramenti per le forze locali per garantire la sicurezza nelle aree liberate dall’Isis.

Nei giorni scorsi il presidente aveva detto che intende ritirarsi dalla Siria e che una decisione verrà annunciata presto. Il Pentagono e il dipartimento di stato, da parte loro, ritengono che sia necessario un sforzo a più lungo termine: temono che se gli americani dovessero andarsene, la Siria finirebbe sotto l’influenza di Russia, Iran e Turchia. Ma questo, più che un timore è una certezza.

In atto.

E il vertice di Ankara ne è la conferma.

L’incontro di Ankara ha delineato alcuni punti fermi. Il primo: l’integrità territoriale della Siria. No a ogni “agenda separatista che mini la sovranità e  e la sicurezza nazionale dei paesi vicini”. Smorzato quindi ogni sogno indipendentista del Rojava, il cosiddetto Kurdistan siriano, regione del nord-est della Siria che aveva raggiunto un’autonomia de facto tollerata da Damasco ma invisa ai vicini turchi. 

Viene così legittimata l’azione di Ankara contro i “terroristi” dell’enclave curda di Afrin, nel nord-est della Siria, vicino al confine turco. Offensiva benedetta da Putin, non così gradita al presidente iraniano Rohani, che ha sollecitato il ritiro delle truppe turche dal territorio siriano, proponendo di affidare la zona al controllo dell’esercito di Bashar al-Assad. Erdoğan, invece, vorrebbe proseguire la sua azione contro i curdi dell’Ypg (Unità di Protezione Popolare) verso Tal Rifat e poi Manbij, dove sono insediate le truppe statunitensi proprio per evitare l’avanzata turca. In cambio del lasciapassare, il presidente turco mollerebbe la presa su Idlib, governatorato su cui ha stabilito una postazione di controllo.

Putin dovrà mediare tra i compagni di trattativa. Il futuro dei curdi siriani è tutt’altro che roseo, anche alla luce delle intenzioni di Trump di ritirare i soldati americani dalla Siria: “con l’Isis quasi completamente distrutta”, assicura la Casa Bianca, la missione non dovrebbe essere prorogata oltre. I curdi siriani delle Forze democratiche siriane (Sdf), che includono anche i curdi siriani dell’Ypg, sono stati importanti alleati degli Usa nella battaglia all’Isis.

Forse saranno abbandonati al loro destino.

Mentre Mosca e Teheran hanno sostenuto e sostengono politicamente e militarmente il regime del presidente siriano Bashar al-Assad, la Turchia ne ha ripetutamente chiesto la rimozione e ha appoggiato i combattenti dell’opposizione siriana. Pur di avere il via libera contro i curdi, però, Erdogan ha accettato l’ipotesi di una Siria ancora guidata da Assad, un rais ridimensionato però a “prestanome”.

Secondo il presidente turco, le Forze democratiche siriane, e quindi i combattenti dell’Ypg, sono solo una copertura per i miliziani del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che rivendica la creazione di uno stato curdo e che, secondo Ankara, sarebbe dietro a tanti attentati in terra turca. 

Se Ankara ha tutto l’interesse alla conclusione di questo conflitto che ha portato in Turchia oltre tre milioni e mezzo di rifugiati siriani, non è però disposta ad accettare una soluzione che possa costituire una minaccia alla sua sicurezza e integrità territoriale. La “sindrome di Sèvres” continua infatti a improntare, dopo quasi cento anni dal Trattato che segnò lo smembramento territoriale dell’Impero ottomano, la concezione della sicurezza della Turchia. Ed è per questo che, al pari degli altri attori esterni coinvolti, il governo turco vuole avere voce in capitolo nei giochi per il futuro assetto della Siria.

rimarca Valeria Talbot, co-head di Mena Center, in un documentato report per l’Ispi.

Rohani ha spiegato:

Come Iran abbiamo detto molte volte che la crisi siriana non ha una soluzione militare ma politica. Il futuro della Siria appartiene ai siriani e devono essere i siriani a decidere su una riforma della costituzione.

Oggi, però, per i tre presidenti le priorità sono altre.

Oltre alla difesa delle sue basi strategiche affacciate sul Mediterraneo, Mosca punta a investire nella ricostruzione della Siria. Turchia e Russia hanno promesso la costruzione di un ospedale da campo per garantire le prime cure ai feriti in fuga dalla regione della Ghouta orientale. Putin ha commentato:

Erdoğan ha proposto un aiuto umanitario urgente per la Siria. Trovo la proposta molto appropriata.

Il terzetto inoltre sollecita la comunità internazionale a “rafforzare l’assistenza alla Siria inviando ulteriori aiuti umanitari, facilitando l’attività di sminamento, ristrutturando le infrastrutture di base, preservando l’eredità storica”. Un progetto a lungo termine di cui Israele si dice “molto preoccupato” perché “aggira l’Occidente”, il grande assente dell’incontro.

Conclusa la battaglia alla periferia di Damasco, il governo siriano ha cominciato a spostare truppe verso la zona del Golan, vicino a Israele. I servizi militari israeliani hanno notato una concentrazione di carri armati e cannoni attorno alla città di Quneitra, il più importante centro siriano nella regione, quasi completamente disabitato dal 1974, quando le forze armate israeliane si sono ritirate per la creazione di una zona cuscinetto controllata dai caschi blu dell’Onu.

Nel 2014 i ribelli jihadisti legati ad al-Qaeda hanno cacciato i caschi blu, dopo averne catturato e poi rilasciato una quarantina. Le forze di Bashar al-Assad hanno poi riconquistato gran parte dei territori in mano agli insorti fino ad arrivare a ridosso di Quneitra.

Dopo oltre quarant’anni, così, l’esercito siriano e quello israeliano, si trovano quasi a contatto, senza più il cuscinetto della missione Onu, Undof. 

Secondo il quotidiano Haaretz, Israele chiederà un intervento degli osservatori dell’Undof, ma il ritorno dei caschi blu appare in questo momento problematico. Il quotidiano riporta anche che sul Golan siriano si nota anche un’accresciuta presenza degli Hezbollah libanesi, provvisti ora di un comando regionale. In prospettiva, l’interesse di Gerusalemme è quello di creare una “zona cuscinetto” nella zona frontaliera siriana, una prospettiva, questa, che confligge con gli interessi iraniani e dell’alleato libanese di Teheran, Hezbollah.

In tutto questo, scompare la tragedia umanitaria.

In Siria, ricorda Save the Children,

oltre undici milioni di persone sono dovute fuggire dalle proprie case e quattrocentoventi mila vivono sotto assedio all’interno del paese. Alcune comunità sono prive di beni essenziali e le famiglie non hanno cibo per sopravvivere. Quelli che provano a cercare aiuti nelle città sotto assedio rischiano la vita. Chiediamo che gli aiuti possano raggiungere subito i dodici milioni di siriani disperati, inclusi circa sei milioni di bambini: l’Onu deve utilizzare tutto il suo peso per negoziare la possibilità di accesso degli aiuti.

Ma l’Onu è bloccato dai veti incrociati. E l’arma del veto si è rivelata una delle più efficaci tra quelle brandite dalla Russia nei sette anni della guerra siriana.

Anche qui: la forza di Putin è nell’aver scelto chi sostenere, quali fossero gli interessi russi da salvaguardare, quali le alleanze da stringere, a fronte delle red lines evocate da Washington, prima con Obama e ora con Trump, come insuperabili (vedi l’uso delle armi chimiche da parte delle forze assadiane), salvo poi essere puntualmente superate senza che questo abbia determinato alcun atto conseguente. Si tratterà di vedere se il “patto a tre” resisterà nel tempo e soprattutto alla prova della pace.

Di certo, a delineare oggi i tratti della pax siriana sono Putin, Erdogan e Rohani.

Per l’Occidente si chiama disfatta.

La spartizione della Siria e la disfatta dell’Occidente ultima modifica: 2018-04-05T17:34:54+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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