Gaza, quando le parole mortificano la realtà

Sono diciassette i morti palestinesi uccisi dal fuoco dei soldati israeliani nei due venerdì di sangue. Le agenzie internazionali continuano a narrare di “violentissimi scontri”, ma la stessa macchina informativa israeliana fatica a mostrare armi nelle mani dei manifestanti.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Se fosse una macabra partita, si dovrebbe parlare di un trionfo dei “giocatori” con la Stella di David. Il risultato è diciassette a zero. Ma quella che si è svolta a Gaza nei due venerdì di sangue non è una partita, e quei diciassette non sono gol ma manifestanti palestinesi uccisi dal fuoco dei soldati israeliani. Un massacro, non uno “scontro”, quello che si è consumato in due tempi, ai confini tra Gaza e stato ebraico.

Le parole pesano come pietre e la cosa peggiore è manipolarle per mascherare la realtà. E a Gaza, dice a ytali Mustafa Barghouti, figura di spicco della società civile palestinese e da sempre assertore della resistenza popolare non violenta,

È avvenuto un massacro a freddo contro decine di migliaia di palestinesi che manifestavano pacificamente contro l’assedio che da undici anni Israele conduce a Gaza, una punizione collettiva contraria a ogni norma del diritto umanitario e alla stessa Convenzione di Ginevra sulla guerra. Schierare centinaia di cecchini e farsene vanto la dice lunga su chi governa Israele, sulla sua moralità, oltre che sulla volontà di perpetrare all’infinito l’oppressione non verso un’organizzazione politica o militare ma contro un popolo intero.

Di fronte a questa situazione che rischia di riprodursi, aumentando il già pesantissimo bilancio di vittime (diciassette morti e oltre duemila e cinquecento feriti), la dirigenza palestinese si rivolge alla comunità internazionale per chiedere protezione per la popolazione civile. Così ci dice Saeb Erekat, segretario generale dell’Olp, storico negoziatore palestinese:

Ciò che sta accadendo a Gaza è sotto gli occhi di tutti. Israele è andato ben oltre l’evocato diritto di difesa. I soldati israeliani hanno sparato contro persone che non stavano attaccando postazioni militari o minacciando la sicurezza di cittadini israeliani. È stata una prova di forza voluta, esibita, rivendicata, di fronte alla quale la comunità internazionale non può restare in silenzio ma deve assumersi le sue responsabilità, se non vuol essere complice di queste stragi.

È lo stesso Erekat a indicare la strada:

Si tratta di impedire nuovi bagni di sangue e questo è possibile solo schierando una forza d’interposizione ai confini tra Gaza e Israele, a protezione della popolazione civile e di un diritto a manifestare che non può essere impedito con il più brutale e indiscriminato esercizio della forza.

Israele ha ribadito la sua assoluta contrarietà rigettando su Hamas le responsabilità di quanto è avvenuto. Ma, ribatte Barghouti

Israele usa Hamas per squalificare ciò che di straordinario è avvenuto con le due ‘Marce del Ritorno’ in campo palestinese. Quarantamila persone, per lo più giovani, hanno dimostrato che esiste una pratica alternativa alla rassegnazione e alla deriva militarista: è la pratica della protesta popolare non violenta, quella della disobbedienza civile. Una pratica che si sta estendendo e che fa davvero paura ai governanti israeliani che conoscono e praticano un linguaggio solo: quello della forza.

È una riflessione che conduce anche un’altra figura di primissimo piano della leadership palestinese, tra le più conosciute a livello internazionale: Hanan Ashrawi, parlamentare palestinese, la prima donna ad aver ricoperto il ruolo di portavoce della Lega Araba, oggi nella segreteria dell’Olp:

Quello praticato a Gaza da Israele altro non è che terrorismo di stato. Ai falchi israeliani fa comodo parlare di una massa manovrata da Hamas, finendo così per riconoscere ad Hamas un’influenza che non risponde al vero. Così come avvenne con l’esplodere della prima Intifada, che nacque, all’interno dei Territori occupati, come protesta popolare, allora come oggi Hamas è stata spiazzata da una sollevazione che non è stata frutto di disegni studiati a tavolino. Hamas non è così potente, pervasiva. Ma, lo ripeto, pur di svilire il senso e i caratteri di queste manifestazione, gli israeliani preferiscono mettere sul piedistallo un nemico di comodo: Hamas.

Le considerazioni politiche s’intrecciano con la cronaca. Sono nove i palestinesi uccisi il 6 aprile. Lo confermano fonti mediche della Striscia che parlano anche di 1354 feriti, di cui 33 gravi. Tra i due ultimi morti per le ferite subite, per l’agenzia Wafa, c’è anche il giornalista palestinese Yasser Murtaja. In ospedale è morto uno dei palestinesi ferito negli scontri di venerdì 30 marzo. Secondo le prime informazioni, riportate dall’agenzia di stampa palestinese Maan, nella serata di venerdì due palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano nella zona di Rafah, nell’estremità meridionale della striscia di Gaza. Sono stati identificati in Mohammed Sa’id al-Hajj Saleh, di 33 anni, e in Alaa Yahya Al-Zamili, di 17 anni, entrambi residenti a Rafah.

Yasser Murtaja, ucciso dai cecchini mentre indossava il giubbotto con la scritta “press”.

Manifestanti palestinesi hanno di nuovo “tentato di infiltrarsi in Israele sotto la copertura del fumo” e sono stati lanciati “altri ordigni esplosivi e bombe incendiarie verso i soldati”. Lo ha detto il portavoce militare di Tsahal, le forze di difesa dello stato ebraico, secondo cui sono circa ventimila i palestinesi che “stanno tumultuando” in cinque punti della barriera difensiva con lo stato ebraico. I tentativi di passare in territorio israeliano, ha aggiunto, sono stati sventati. Il presidente palestinese Abu Mazen ha condannato “le uccisioni e la repressione svolte dalle forze di occupazione israeliane a fronte della manifestazione di massa pacifica” di oggi sul confine di Gaza.

Come venerdì 30 marzo, anche ieri sono stati disposti lungo il confine dei tiratori scelti, che hanno nuovamente sparato sui manifestanti. E come la scorsa settimana, l’esercito israeliano ha detto di aver sparato soltanto contro i manifestanti che provavano ad attraversare il confine. Secondo il ministero palestinese per la salute, però, Murtaja era a trecento e cinquanta metri dal confine quando è stato colpito: anche lui è stato ucciso dai tiratori scelti, così come altri giornalisti sono stati feriti a loro volta mentre indossavano un giubbotto con la scritta press, a quanto ha detto il sindacato palestinese dei giornalisti. I manifestanti hanno provato a bruciare pneumatici per nascondersi dai tiratori dietro al fumo.

L’esercito israeliano ha usato anche lacrimogeni e proiettili di gomma per rispondere alle proteste, e ha detto che il fumo è stato usato come copertura per provare a piazzare esplosivi lungo il confine. Un articolo del quotidiano progressista israeliano Haaretz, a firma del suo analista militare Amos Harel, ha spiegato che l’esercito israeliano non si aspettava molta attenzione internazionale per le proteste, ed era preoccupata che per delle debolezze nel sistema di recinzioni che protegge il confine con la Striscia di Gaza dei palestinesi armati potessero penetrare nel territorio israeliano, raggiungendo alcuni insediamenti (kibbutz) poco distanti. Secondo Haaretz, Israele non ha dedicato troppe risorse all’organizzazione della risposta al primo venerdì di proteste, e ha semplicemente permesso ai tiratori scelti di sparare alle gambe ai manifestanti che avessero superato una linea immaginaria ad alcune centinaia di metri dal confine, dopo alcuni colpi di avvertimento.

Il fotogiornalista palestinese Khalil Abu Adhara was colpito dall’esercito israeliano il 6 aprile (fonte IMEU).

Annota Bernard Guetta su Internazionale:

I palestinesi sembrano senza speranze, ma per quanto Israele possa contare sulla forza delle armi, del sistema scolastico e dell’economia, la sua debolezza è altrettanto palese, perché rifiutando la soluzione dei due stati la maggioranza di destra ed estrema destra lascia soltanto un’alternativa: o Israele diventerà uno stato basato sull’apartheid, dove i palestinesi non avranno diritto di voto, o i palestinesi diventeranno israeliani, e gli ebrei si troveranno presto in minoranza. In entrambi i casi sarebbe la fine di Israele.

Restano i “giochi di parole”. Le agenzie internazionali, aggiornando le notizie su Gaza e sul bilancio delle vittime, continuano a narrare di “violentissimi scontri”. Ma la stessa macchina informativa israeliana, affinata in decenni di pratica, fa fatica a mostrare armi nelle mani dei manifestanti o a videotestimoniare di tentativi di infiltrazione. Scrive Neve Gordon, docente di diritto internazionale alla Queen Mary University di Londra:

‘Se solo i palestinesi avessero un Mahatma Gandhi’ molti progressisti israeliani hanno esclamato, ‘allora l’occupazione finirebbe’. Ma se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì notte (30 marzo, ndr). Palestinesi, stimati in trentamila, si sono uniti nella ‘Marcia del Ritorno’ nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la massiccia espropriazione della loro terra ancestrale.

Per poi concludere:

Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi hanno diritto alla libertà?

Perché, alla fine, il punto è questo: la volontà politica di ricercare un compromesso. Parola che non sembra esistere nel vocabolario dei falchi che oggi governano Israele, così come in quello di Hamas. Ricorda a tutti Amos Oz:

Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo. Morte.

È Gaza, oggi.

Gaza, quando le parole mortificano la realtà ultima modifica: 2018-04-08T10:37:41+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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