Lo tsunami elettorale del 4 marzo aggiunge l’ennesimo tassello a un quadro politico e sociale in rapida quanto radicale trasformazione. A cinquant’anni esatti dal Sessantotto, la sinistra è di nuovo di fronte a uno spartiacque epocale. Questa volta non come protagonista del cambiamento, come fu allora, ma, per molti versi, come sua principale vittima. Perché? Cos’è andato storto da quell’epoca a oggi? Si è davvero esaurita la spinta trasformativa innescata dalle vicende sessantottine? Quale pensiero allora – con analoghe valenze e valori – può imprimere una nuova energia all’azione di cambiamento richiesta dalle domande dell’oggi e del futuro?
Ne abbiamo discusso con Diego Fusaro, filosofo, che insegna presso l’Istituto alti studi strategici e politici di Milano ed è autore di “Bentornato Marx!” (Bompiani, 2009), “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo” (Bompiani, 2012), “Il futuro è nostro” (Bompiani, Milano 2014), “Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo” (Feltrinelli, Milano 2015), “Pensare altrimenti” (Einaudi 2017).

Diego Fusaro
Diego Fusaro, lei ha definito il Sessantotto come un “colossale miraggio collettivo… come emancipazione non dal, bensì del capitale, che per tutto trasformare in merce, doveva abbattere ogni autorità e ogni figura del limite ancora sussistenti”. Ci spieghi meglio, crede che il principale problema della società moderna sia l’eccesso di libertà?
Il problema della società moderna sta nel fatto che la libertà è sempre intesa come liberalizzazione individuale dell’io pensato come atomo autocratico. In tal senso, la libertà è paradossalmente confusa con la proprietà dell’individuo e con la libertà di poter consumare merci e di poter intrattenere rapporti mercificati. Invece, hegelianamente parlando, la libertà andrebbe meglio definita come un rapporto tra individui comunitari, ugualmente liberi. Esattamente il contrario della società della liberalizzazione.
Lei parla di “individui ugualmente liberi”. Il problema è forse che, dal Sessantotto, libertà e uguaglianza non sono progredite di pari passo?
Sì, direi che dal Sessantotto in poi si è cominciato a concepire la libertà come la possibilità per l’individuo di fare tutto quello che gli passava per la testa, senza limitazioni. Questa è una libertà individualizzata, pensata come volontà di potenza infinita e, quindi, più simile alla visione nietzschiana che a quella hegelo-marxiana. Una libertà senza uguaglianza, dove l’uguaglianza è intesa come rapporto sociale, come idea che si debba essere tutti ugualmente liberi. La libertà è, invece, dal Sessantotto, la libertà dell’individuo, inteso come atomo senza rapporti sociali.
Quelli che una volta erano ritenuti valori assoluti, non tengono più. La stessa concezione di bene e di male vacilla. Cosa pensa della libertà che c’è oggi di dire tutto e il contrario di tutto?
Il problema non è che oggi si dica tutto liberamente. Il problema è che liberamente non c’è più nulla da dire. Assistiamo a una sorta di monologo di massa, dove tutti liberamente dicono le stesse cose. Questo è il paradosso dell’omologazione sotto il segno della forma merce. La belle époque post 1989 ha prodotto fughe di massa verso l’omologazione coatta. In confronto, fascismo e stalinismo erano totalitarismi imperfetti rispetto a quello glamour della società di mercato.
Il pensiero filosofico è in grado di produrre alternative all’omologazione di cui lei parla?
Il pensiero filosofico fa brillare il senso dell’alternativa mostrando la non perfezione della società così com’è e quindi la necessità di criticarla. Io mi richiamo sempre e volentieri al modello intramontabile della società greca, all’idea della polis, ma anche al modello marxiano e hegeliano, che restano imprescindibili per capire il presente e indicare nuove vie per l’emancipazione.
Quali sono queste vie? Esiste un’alternativa a quello che viene definito pensiero unico?
L’alternativa al pensiero unico non passa dagli intellettuali, che hanno ormai di fatto assunto il ruolo di mediatori del consenso rispetto ai signori del capitalismo globalizzato. Io ho molto più fiducia nelle masse nazionali popolari di gramsciana e pasoliniana memoria. Negli umili, nei semplici, che hanno molto ben capito che la società globalizzata e mercificata è per loro del tutto svantaggiosa.
Parla di una lotta di classe a livello globale?
Certo, mai come oggi c’è stata una lotta di classe così esasperata. Il problema è che, mentre ai tempi di Marx la lotta di classe era combattuta in senso biunivoco, oggi è invece combattuta in senso univoco, in una sorta di massacro di classe, che, i signori del capitalismo, che hanno dalla loro i mezzi di produzione e comunicazione, riescono a compiere facendo in modo che i dominati subiscano in silenzio senza alcun ritorno di fiamma rossa. Questo è il vero dramma: gli ultimi subiscono in silenzio e non si ribellano. Oggi c’è una lotta di classe globale che vede, da una parte, una classe globalista e turbocapitalista di pochi signori del capitale finanziario e, dall’altra, masse precarizzate e proletarizzate, precipitate nell’abisso, che subiscono in silenzio. La stessa classe borghese oggi non esiste più, è stata anch’essa precarizzata.
Secondo lei il 4 marzo è stato un grido di sussulto che ha rotto questo silenzio?
Direi che più che un sussulto è stato un guaito doloroso, di chi ha capito che i partiti dominanti finora rappresentavano gli interessi del capitale finanziario e non delle masse nazionali popolari. Le masse nazionali popolari hanno quindi votato altrimenti.
Il vero dramma è che i nuovi partiti non saranno facilmente in grado di portare avanti gli interessi delle masse nazionali popolari. Queste chiedono salari dignitosi, diritti sociali, la possibilità di avere un lavoro equo e onesto. Richieste che entrano in contraddizione con i desiderata dei tecnocapitalisti dominanti. Difficilmente si riuscirà a distruggere tutto questo.
Il reddito di cittadinanza proposto dai 5 stelle scatena spesso sorrisi di sufficienza e indignazione, ma solleva anche un problema centrale nella nostra società: cosa far fare e come retribuire milioni di persone. Lei cosa ne pensa?
Non c’è nulla da ridere rispetto al reddito di cittadinanza. Gli unici che potrebbero riderne a ragione sarebbero coloro in grado di proporre nei loro programmi piena occupazione e contratti a tempo indeterminato. Ma che a indignarsi siano i partiti che hanno creato disoccupazione e precarizzazione del lavoro a colpi di Jobs Act fa ridere per non piangere.
I cinque stelle individuano giustamente il problema, che è quello delle masse che non arrivano a fine mese. Ma non lo risolvono in maniera sufficiente. A mio avviso, marxianamente parlando, bisogna ripartire dal lavoro e non da forme di pur rispettabilissima carità e assistenza degli ultimi. Una società non può vivere solo di quello, ma deve fondarsi sul lavoro e sull’occupazione.
Che posto occupa oggi il lavoro nella nostra vita? Rispetto al Sessantotto, com’è cambiato il rapporto tra individuo e lavoro?
Citando Dostoevskij dico: “Togli a un uomo il suo lavoro e non hai più un uomo ma uno schiavo”. Senza il lavoro, di fatto, l’uomo diventa qualcosa alla mercé di altri, perché non è in grado di autosostentarsi. Stiamo andando in quella direzione: è chiaro che il lavoro non ha più il posto centrale che aveva nella società fordista. Stiamo assistendo a una disoccupazione sempre maggiore, a forme di contratto che rendono gli uomini schiavi, perché il precariato ti rende schiavo di fatto: sei sotto ricatto permanente, non hai la possibilità di stabilizzarti nella tua vita famigliare, lavorativa, politica. Per ricorrere alle parole del poeta Dante: fai parte di “color che son sospesi”, che non hanno mai la piena possibilità di esistere in senso pieno.
Anche prima del Sessantotto l’uomo era schiavo, nel senso che mancavano certe tutele fondamentali. Cos’è che è andato storto?
Prima del Sessantotto, il quadrante sinistro della politica scendeva in campo per le sacrosante lotte marxiane, per avere diritti sociali, per lottare contro il capitale. Era la rivoluzione come trascendimento del modo capitalistico della produzione.
Dal Sessantotto è come se uscisse di scena Karl Marx e il nuovo mito di riferimento diventasse Friedrich Nietzsche. Non è un caso se proprio in quegli anni Nietzsche comincia a essere letto come riferimento delle sinistre, con Gianni Vattimo in Italia e Gilles Deleuze in Francia.
Perché?
Nietzsche è il teorico dell’oltreuomo, cioè dell’individuo che ha volontà di potenza illimitata. Il consumista perfetto, che può tutto, perché non ha più vincoli nella società liberalizzata e diventa un atomo ingigantito. Le lotte sessantottesche contro l’autorità borghese, “tutto e subito”, “vietato vietare”, hanno spalancato le porte non al comunismo marxiano, ma a una sorta di società nietzschiana dei consumi e della volontà di potenza consumistica per individui consumatori liberalizzati. Questa è la tragedia, di cui già Pasolini si accorse, cioè che il Sessantotto lottava contro il vecchio mondo borghese, ma non apriva al comunismo, ma bensì a un capitalismo non più borghese.
Parliamo di destra e sinistra. Lei pensa che oggi ci siano delle categorie più adeguate per spiegare lo scenario politico?
Ancor più che di destra e sinistra parlerei, citando Hegel, di servi e signori. Le politiche a cui bisogna ispirarsi sono quelle che difendono gli interessi del servo e non quelli del signore. Da questo punto di vista, il Pd, che pure si dichiara di sinistra, nella misura in cui tutela il signore e non il servo, non è un partito a cui dare il proprio sostegno.
L’Europa in quanto soggetto politico potrebbe essere uno strumento di liberazione per quelli che lei chiama servi?
L’Unione europea così com’è no, perché nasce esattamente come strumento dei signori per tutelare il loro interesse. Dopo il 1989, i signori erano ben felici che fosse finito il comunismo sovietico. Da quel momento poterono procedere a distruggere le ultime realtà che ancora frenavano il capitalismo, che erano le pur perfettibili democrazie degli stati sovrani nazionali. L’Unione europea è servita a questo: a denazionalizzare l’economia per rendere ancora più facile il gioco del capitalismo globalizzato.
Crede che dovremmo tornare indietro?
Bisogna ripartire dal conflitto servi-signori. Questo conflitto può avvenire solo se c’è un ring, perché se il servo e il signore non si incontrano mai, perché il signore delocalizza, c’è la violenza ma non c’è mai lo scontro frontale. Occorre invece ripartire da quei ring che erano gli stati sovrani nazionali, dove se il servo di Mirafiori scendeva in piazza, Roma doveva rispondere di quello che accadeva e seguivano le conquiste salariali, di welfare, che erano tutte interne agli stati nazionali.
Utilizzando la sua terminologia, ritiene possibile che i vari servi europei si uniscano e lottino nel ring definito dall’Unione europea?
Questo è impossibile nella misura in cui questo ring – quello dell’Unione europea – serve esattamente a impedire che avvenga il conflitto servi-signori. L’Ue è stata costruita in maniera tale da imporre delle norme che servono a colpire quotidianamente i servi e a far beneficiare di ciò i signori. Togliendo gli stati sovrani nazionali è stato fatto l’interesse non dei lavoratori ma del capitale.
In questo scenario apocalittico vede da qualche altra parte del mondo un barlume di speranza?
Vedo stati sovrani nazionali che resistono. Penso alla Bolivia di Evo Morales, a Cuba, alla Russia, a tutti i paesi non allineati con l’ordine mondialista che, nell’epoca post 1989, sono una sorta di equivalente funzionale di senso rispetto al comunismo storico novecentesco, ormai defunto. Certo, se ci fosse Lenin sarebbe molto meglio, ma purtroppo oggi dobbiamo accontentarci di Evo Morales e Vladimir Putin.
Nella Russia di Putin non è che si sia tutti così uguali. Ci sono, ad esempio, grandi disparità di reddito. Lei cosa pensa a riguardo?
La Russia di Putin è pur sempre uno stato capitalista, ma di un capitalismo non ancora di tipo americano. Il vero dramma è il capitalismo in sé – non c’è dubbio – ma lo stadio europeo di capitalismo welfaristico, quello degli anni Sessanta per intenderci, sindacalizzato e quant’altro, è il modello attuale russo, con ancora dei diritti, delle limitazioni.
Lo stadio ulteriore sarà quello di imporre a tutti i paesi il modello americano, quello dove si muore di fame ai bordi delle strade, dove se non hai i soldi non puoi nemmeno farti curare, dove si lavora h24 per essere meglio competitivi.
Il modello russo o quello boliviano hanno a mio giudizio una doppia funzione. Primo, non sono ancora il modello americano, e, secondo, sono forme di resistenza al mondialismo monopolare di tipo statunitense. È meglio una compresenza poliarchica di stati conflittuali che non un’unica monarchia universale, come la chiamava Kant, in questo caso quella statunitense.
Anche quando in questi paesi i diritti delle minoranze vengono calpestati come non succederebbe in nessun caso in Europa o nel resto del mondo occidentale?
È un problema serio quello a cui fa riferimento. Ma negli Stati Uniti è molto peggio. Lì non c’è più la distinzione tra minoranze o maggioranze. Negli Stati Uniti l’uno per cento beneficia e il 99 per cento subisce in silenzio. Può essere omosessuale o eterosessuale, carnivoro o vegano, subisce totalmente. È giusto criticare i limiti di Russia o Bolivia, ma non deve servire a glorificare il capitalismo. Sono sempre scettico verso quelle critiche che finiscono per legittimare il capitalismo. Sostenere che la Russia ha dei limiti è verissimo. Però se questo discorso finisce per potenziare il discorso americano credo allora che lo si debba evitare accuratamente, perché finisce sempre per produrre un riallineamento con l’ordine americano.
L’ordine americano è “marcio”, le alternative lontane dalla perfezione. In questo scenario tutt’altro che roseo che lei delinea, da dove la società mondiale potrebbe ripartire?
Io penso che la soluzione temporanea e provvisoria, in attesa del comunismo di Marx e Gramsci, sia più modestamente quella che con Hegel definirei la riconquista del mondo etico, cioè la riconquista di quegli enti solidali e comunitari che contengono l’avanzata del capitalismo. Questi vanno dalla famiglia al sindacato, dalla scuola pubblica alla sanità pubblica e culminano nello stato come potenza della politica che domina e controlla l’economia. Direi che, se l’obiettivo è arrivare al comunismo di Marx, il passaggio necessario è la società etica di Hegel.

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