A cinquant’anni dal Sessantotto, una nuova e potente rivoluzione bussa alle porte di un’umanità lanciata a tutta velocità verso un futuro “a corto di lavoro”, nel nome di un progresso apparentemente senza alternative, dove digitale e reale si fondono fino a diventare quasi la stessa cosa. Davanti a questi cambianti epocali, la politica naviga a vista, incapace di alzare lo sguardo e concepire un orizzonte condiviso.
Di fronte a una politica “sterile”, è possibile ipotizzare un pensiero nuovo, in grado di rifondarla in rapporto alle domande della nostra epoca?
Ne abbiamo discusso con Luisa Muraro, filosofa che ha avuto un ruolo centrale nell’elaborazione del pensiero femminista in Italia e non solo, già docente di filosofia teoretica all’Università di Verona e tra le fondatrici della Libreria delle donne, della rivista Dogana oltre che della comunità filosofica femminile Diotima, che ha elaborato e diffuso il pensiero della differenza, fino a renderlo una realtà imprescindibile della filosofia contemporanea.
Con la filosofa femminista abbiamo tentato di capire se si possano trovare punti di contatto tra la transizione che abbiamo l’impressione di vivere oggi e la rivoluzione che fu il Sessantotto, e soprattutto, se e da dove oggi è possibile partire per mettere in discussione lo status quo e consentire a donne e uomini di stare al passo con un tempo frenetico, senza restarne travolti.

Luisa Muraro
Luisa Muraro, sul salario di cittadinanza proposto dai 5 stelle, sorrisi di sufficienza si mescolano a indignazione, ma non sembra che ci sia la voglia di addentrarsi davvero nel tema che esso sottende. In una società affluente e caratterizzata da sovrapproduzione di beni, in una società nella quale presto la robotizzazione sarà un tratto normale della realtà in cui viviamo, la questione di che cosa far fare e come retribuire milioni di persone, a me non sembra un tema “grillino” ma un tema che dovrebbe essere al centro della discussione politica e culturale attuale, che s’intreccia con quelli della crescita (quale crescita, verso dove?).
Vorrei iniziare da questo punto la nostra conversazione.
Le premesse della domanda mi trovano interamente d’accordo. Viviamo in una società la cui economia produce beni in sovrabbondanza, infatti gli osservatori economici sono sempre con gli occhi puntati sui nostri consumi, in attesa speranzosa di vederli crescere in quantità. E sorvolano su altre preoccupazioni, come quelle che ispirano la domanda messa tra parentesi, alla fine: quale crescita, verso dove?
L’economia produttiva, d’altra parte, non dà lavoro a tutti, e fra quelli che non trovano lavoro, oggi bisogna mettere una maggioranza di persone giovani. C’è per giunta la prospettiva che, grazie (?) alla tecnologia, il lavoro debba ulteriormente diminuire. Quando vedo gente giovane dedita al consumo quale che sia, viaggi esotici o bevute sotto casa, intendo giovani di cui so o indovino che non hanno un degno reddito da lavoro, ricaccio indietro il mio moralismo con questo pensiero: che altro possono fare per aiutare l’economia? Che è un pensiero piuttosto triste.
La contraddizione che mina le prospettive di una crescita bene orientata, dovrebbe essere “al centro” della attuale discussione politica e culturale, afferma chi ha formulato la domanda.
La mia prima perplessità, una pignoleria solo in apparenza, è sull’espressione “al centro”. Per sapere che c’è un centro e situarlo, infatti, dovremmo trovarci in un ambito circoscritto, grande quanto si vuole, ma circoscritto. Ma pare che in questa epoca non sia dato scorgere niente che somigli a un orizzonte; lo penso anch’io.
Perciò, secondo me, il meglio è agire politicamente secondo le circostanze in cui ci troviamo a vivere, interpretate alla luce della verità soggettiva. Ricavo questo criterio dal mio impegno femminista; ci tornerò.
La proposta di politica economica che va sotto il nome di reddito di cittadinanza potrebbe essere, in qualche modo, da qualche punto di vista, buona. Ma, dopo aver letto, ascoltato, pensato, non ho raccolto elementi sufficienti per giudicarla.
La prima e più banale perplessità: sono spaventata all’idea che si debba introdurre anche questa voce nel bilancio statale e che, per introdurla, inevitabilmente si faccia torto ad altri che hanno diritto o comunque bisogno della solidarietà sociale.
Ma ben più forte in me è un’altra obiezione. Dobbiamo concedere, chiedo, a un sistema produttivo che finora si è distinto e ha trionfato su altri (feudalesimo e comunismo) per la sua capacità d’incentivare gli individui al lavoro, dobbiamo concedergli di non adoperarsi all’estremo per creare posti di lavoro?
No, rispondo, chiediamogli invece conto dei motivi di quest’abdicazione. La sua ratio, cioè il criterio di fondo, è il profitto, lo sappiamo, ma il capitalismo non ha mai preteso finora di vincere in nome del solo profitto, ha sempre cercato una razionalità più o meno rispondente all’interesse generale. Perché ora lo fa sempre meno?
Noto una cosa inquietante: una volta pareva che l’economia capitalistica avesse bisogno della democrazia, ora non più, ora è la democrazia che ha bisogno del capitalismo.
La scienza economica ci spieghi quello che sta capitando. Ci dica inoltre se sia giusto e sensato, ossia razionale, in presenza di magagne che si presentano a livello produttivo, nasconderle con rimedi come questo del reddito di cittadinanza, che è un dare soldi ai consumatori perché consumino la sovrapproduzione.
Su quest’altro versante, quello degli ipotetici destinatari del reddito in questione, le nuove generazioni principalmente, vorrei chiedere loro se non hanno niente da obiettare alla negazione del loro diritto al lavoro, compensata da una specie di precoce pensionamento. Aggiungo che non è principalmente una questione di diritti; il lavoro è ben di più, per il singolo e per la convivenza sociale.
Agli inizi del femminismo, alcune militanti che sapevano di economia politica lanciarono l’idea di un salario al lavoro domestico, che era teoricamente ben fondata. Ebbero un certo seguito, ma non abbastanza da farne un’idea vincente in quel campo di battaglia che è il femminismo, da cinquant’anni. Le donne, di fatto, in accordo con la posizione femminista prevalente, preferirono la possibilità di entrare nel mercato del lavoro.
Quest’orientamento costituisce un fatto significativo anche per la questione che ci interessa qui. Le donne che cercavano libertà personale, in lotta contro il patriarcato moderno, al salario del lavoro domestico hanno preferito il mercato del lavoro, alcune rinunciando ad avere una vita familiare, molte altre organizzandosi per averla con l’aiuto volontario o pagato. E parecchia fatica in più. Perché questa scelta, che ha le caratteristiche di una mossa politica?
Per avere esistenza nella vita pubblica, rispondo, e per riuscire a migliorare la propria condizione: infatti, avere un lavoro retribuito è la forma principale di vita pubblica, che dà esistenza e un minimo di forza contrattuale nei rapporti con la collettività. Si tratta di una scelta doppiamente significativa in quanto proveniente da chi aveva comunque una posizione dignitosa nella vita sociale, in quanto donne di casa nonché, molte, madri di famiglia.
Non mi fermo a fare altri discorsi sul senso del lavoro ai fini di sentirsi partecipi e responsabili della vita associata.
Ma un discorso vale la pena di evocarlo, quello della filosofa francese Simone Weil. È il lavoro, afferma, che poteva, o avrebbe potuto, fare la superiorità della civiltà moderna su quella dell’antica Grecia, resa sorda su questo tema dalla sua economia schiavistica. Avrebbe potuto, precisa, se la nostra concezione del lavoro, in primo luogo quello manuale, e la sua aberrante organizzazione, non lo privassero del suo valore.
Un certo numero di economisti sa che devono ripensare la loro concezione del lavoro, troppo oggettivante, troppo centrata sulla produzione e sulla produttività. Non sono pochi, a giudicare da Laura Pennacchi, Il soggetto dell’economia (Ediesse, 2015).
Un documento femminista apparso nel 2009, suggerisce la direzione da prendere. Lo fa avanzando l’idea di considerare lavoro “tutto il lavoro necessario per vivere”. Ed è, fin dal titolo, Immagina che il lavoro, un invito eloquente a prendere, in economia e in politica, la strada di una rivoluzione copernicana. (Forse qualcuno lo ignora: non fu in base ai calcoli che la visione copernicana s’impose sulla tolemaica, ma per la potenza immaginativa di alcuni, fra i quali mi piace ricordare Giordano Bruno).
Resta, per finire, la domanda più semplice e difficile: quale crescita? verso dove? Tentare una risposta non è pretenzioso, è semplicemente urgente. Ecco la mia, in poche parole. Per me, si tratta di dar vita al mondo in cui ci è capitato di trovarci, prolungando in forma consapevole l’opera dell’evoluzione creatrice.
Ma come? Per cominciare, metti la realtà che non dipende da te alla luce di quello che sei e puoi fare: non c’è veramente niente che non puoi fare? E viceversa, metti te stesso alla luce del contesto in cui non hai scelto di stare: non c’è forse intorno a te qualcosa che ti viene detto e offerto?
Gli organismi viventi questo fanno, fanno cioè interagire quello che sentono dentro con quello che trovano fuori. Smettiamola di separare la soggettività dal mondo, smettiamola di sfornare conoscenze oggettive e mezzi strapotenti che non si sa dove ci portano.
Dopo il voto del 4 marzo il termine più usato per descrivere quanto accaduto è stato tsunami (o terremoto). Indubbiamente si tratta di uno spartiacque. Guarda caso esattamente cinquant’anni fa, ci fu un sussulto – Il Sessantotto – che retrospettivamente è considerato uno spartiacque epocale. Ci sono analogie tra queste due fasi storiche, se non nelle modalità e nelle conseguenze, nel fatto che entrambi sono movimento contro lo status quo?
Se è così, cos’era allora e cos’è oggi lo status quo?
Nessuno può escludere, tanto meno io che politologa non sono, che le elezioni politiche italiane del 2018 finiscano per rivelarsi qualcosa come una svolta sorprendente nella storia del nostro paese o addirittura dell’Europa, e qui mi fermerei, senza immaginare più vasti orizzonti.
Ma mi sento di escludere che l’accostamento con il Sessantotto sia in alcun modo illuminante. L’accostamento più sensato sembra essere, per ora, con quello che sta capitando in Europa che è l’evaporazione della sinistra in fatto di cultura e di forza politica, l’ostilità verso la UE e il diffondersi del populismo di destra. Tutte cose già dette che riferisco come tali, contro le quali non ho obiezioni.
Obietto invece all’immagine del Sessantotto suggerita nella formulazione della domanda, immagine che si allontana dalla realtà storica nota e condivisa, su due punti non secondari: le caratteristiche degli eventi che portano quel nome (non fu un sussulto) e la consapevolezza di chi li ha vissuti (che non si formò retrospettivamente).
Il nome, per cominciare, non va preso alla lettera. La rivolta, maturata nel corso degli anni Sessanta, scoppiò nelle università americane nel 1966, contro la leva militare e la guerra del Vietnam; ben presto si propagò per contagio nelle università di altri paesi, in Italia arrivò nel 1967, con un’amplificazione dei temi e un corrispondente coinvolgimento di altri soggetti, fra cui, in alcuni paesi, anche gli operai.
Il significato sovversivo, anzi rivoluzionario, delle rivolte fu rivendicato quasi subito dai loro protagonisti, come sanno quelli che vi parteciparono e testimonia la pubblicistica dell’epoca, per non parlare dell’azione di contrasto da parte dei servizi segreti americani e nostrani, culminata nella strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969.
Passo alla domanda vera e propria, sul confronto fra lo status quo di allora e quello di oggi.
Allora, detto in poche parole, lo status quo era la conservazione di un modo di produzione e di riproduzione che, nei paesi a economia industriale e mercato libero, aveva dato buona prova di sé, ma era minacciato o limitato dalle forze del socialismo e del comunismo.
Perché noi, cresciuti nella società del crescente benessere, ci siamo rivoltati? Perché il liberismo non è libertà; perché i buoni risultati costavano guerre, sfruttamento e sottosviluppo a una parte della popolazione mondiale; perché volevamo orientare gli sviluppi futuri del modo di produzione e riproduzione verso il superamento di questi costi.
Ho riassunto la fede politica, che coincideva solo in parte con i reali moventi, fra i quali era ben riconoscibile l’insofferenza generazionale per la vecchia cultura. Quest’ultima in effetti cedette il passo a un nuovo tipo di cultura (a parte il maschilismo di origine patriarcale, che sarà scalzato dal femminismo).
Oggi, lo status quo è uno stato di politica bloccata, che potrebbe riassumersi nel difficile mantenimento di un equilibrio senza alternative. L’economia basata sul profitto, sull’abnorme sviluppo finanziario e sul “libero” mercato, non è minacciata da proposte alternative, non deve difendersi da forze rivali, è messa in difficoltà dal suo stesso funzionamento, e non occorre che io faccia l’elenco dei problemi che la politica non riesce a risolvere, in primis la gente giovane che non trova lavoro.
Ci sono effetti di questo funzionamento, come migrazioni e guerra, che forse all’economia vanno pure bene, ma non all’umanità comune. Dobbiamo assuefarci?
Per la nostra metà del mondo, penso specialmente al fatto, denunciato da molti economisti, di una distribuzione iniqua della ricchezza che non rifluisce più, poco o tanto, sulle classi popolari e fa invece più ricchi i già ricchi, senza che ciò sia imputabile allo speciale egoismo di pochi, si deve piuttosto a un sistema globale che non si sa da che parte prendere per modificarlo.
È in questa luce che io leggo i risultati elettorali del 4 marzo. La Confindustria ci ripete: gli immigrati sono una risorsa indispensabile, e perciò ha sostenuto, piuttosto apertamente, il governo in carica. Ma non ha convinto l’elettorato. La razionalità del capitalismo, in passato vincente, non brilla più.
Nel sentire comune, oggi viviamo a una velocità molto maggiore rispetto a cinquant’anni fa. Ma alla fine le nostre giornate sono cadenzate da obblighi che sono sempre gli stessi dentro le stesse 24 ore. Che cosa è la velocità di cui tutti parlano oggi?
La velocità di cui si parla oggi, è la velocità delle macchine, che siano meccaniche, elettriche o elettroniche.
Non è superiore a quella del cervello e dell’immaginazione, tant’è che gli uomini sono riusciti a idearle e fabbricarle, e le usano. Ma è superiore sia a quella dei ritmi vitali di un organismo vivente, a cominciare dalla sua riproduzione, come sanno bene le donne che fanno i bambini, sia a quella dei processi culturali, dall’imparare a fare cacca e pipì in maniera decente, fino, e oltre, all’istruzione necessaria per inserirsi utilmente nella vita sociale; oltre, c’è l’invecchiamento e la morte, la cui prospettiva deve essere accettabile, pena l’inferocimento dell’umanità.
Il sorpasso della velocità umana da parte delle macchine è il frutto di un lungo processo sul quale qualcuno ha cercato anche di riflettere, ma non a fondo, tant’è che il suo avvenimento, infine evidente, è stato salutato con una prosa che il senno di poi rivelò troppo ottimista ma che era, da subito, sconsiderata. Mi riferisco al futurismo e al famoso Manifesto di Marinetti.
Il Manifesto apparve nel 1909. Dopo qualche anno, quando cominciò la Grande guerra, il sorpasso dell’umano da parte delle macchine si rese doppiamente evidente, con l’impreparazione dei generali e la strage degli uomini.
Gli Stati maggiori delle potenze belligeranti, a causa della leva obbligatoria, disponevano di uomini in quantità illimitata, ma erano impreparati alla potenza tecnica raggiunta dalle macchine.
A questa rimediarono con quella e così impostarono la guerra rendendola lunga e micidiale: gli eserciti si trovarono impegnati in una serie di scontri cruenti che si ripetevano inutilmente per mancanza di strategie adeguate.
Che cosa c’entra questo con la domanda? C’entra. La domanda riguarda il contrasto tra la conclamata velocità del vivere e la ripetitività della vita quotidiana, e questo contrasto, per non istupidirci, chiede che abbiamo delle strategie.
In una città come Milano, le giovani donne, grazie a strategie adeguate, si tengono in equilibrio tra lavoro e vita familiare così come un surfista sulla sua tavoletta. Le strategie riguardano la distribuzione e la destinazione del tempo, tanto quanto le forze fisiche e le disponibilità affettive.
Non è facile, richiede molta inventiva, possibile a una condizione sine qua non, e cioè che si dia significato e valore all’una e all’altra cosa, e non solo: anche al loro contrasto, che può essere tradotto in una proficua alternanza. Così è per queste giovani donne a Milano e altrove.
Di loro parla una pubblicazione della Libreria delle donne dal titolo quanto mai significativo nella sua brevità, Il doppio sì. La parte maschile della società non sa ancora dirlo e, quando lo avrà imparato, sarà qualcosa di nuovo, perché la differenza maschile c’è, deve solo imparare le sue strategie.
Sarà finito il tempo di quegli uomini, ripenso a mio padre, che tornavano dal lavoro a una vita domestica popolata da persone cui volevano un gran bene ma, detto questo, sembravano astronauti che arrivano sulla Luna.
La velocità, reale o percepita, che caratterizza le nostre vita è accompagnata da un senso di immediatezza che ci porta a desiderare sempre qualcosa di nuovo, in una sorta di bulimia che si estende a ogni sfera della vita, dal modo in cui ci informiamo a come viviamo le relazioni. Siamo cittadini o consumatori? C’è un tempo al femminile che possa prevalere e aggiustare i nostri orologi e renderli più umani?
La questione sollevata da questa domanda appare interessante ma più interessante per me è il modo in cui lo fa e di questo parlerò. M’interessa molto quell’interrogativo finale che fa entrare in scena un personaggio, il femminile, che, nel corso dell’intervista, compare qui per la prima e unica volta.
Ma, prima di addentrarmi, due parole almeno sulla questione vera e propria. Forse non è un caso che l’interrogante pensi alle donne, avendo lui concepito un senso di pena per un vivere troppo veloce che lascia inquieti e vogliosi. È in cerca di aiuto e si rivolge verso le donne.
Le mie amiche del Gruppo Lavoro mi hanno detto che le donne che lavorano danno al tempo un valore non inferiore ma alternativo al valore che gli uomini danno al salario. E, più che per i soldi, lottano per avere più tempo, non solo per dedicarsi alle persone care, vogliono del tempo anche per sé.
Riprendo il mio filo. Chiaramente, il femminile che ho incontrato qui non è il genere grammaticale che ci ha insegnato la maestra di scuola parlando di aggettivi, nomi e pronomi.
Qui, infatti, si parla di un tempo al femminile, ossia di un modo di essere del tempo o di viverlo, che fa pensare alle donne. L’interrogativo ne suscita altri. Dobbiamo o possiamo intendere che il tempo reso problematico dalla velocità del nostro vivere, sia un tempo al maschile? Non possiamo però escludere che si tratti di un tempo neutro. Il neutro come genere grammaticale si è perso, surrogato dal maschile, ma si è conservata la nozione, sicuramente per qualche buon motivo.
Sullo sfondo, si profila un problema che è stato affrontato dall’antropologia, la prima delle moderne scienze umane che si è interessata della questione della differenza sessuale.
Pare che, all’origine delle origini dell’umanità, il fatto della differenza, insieme all’attrazione o alla repulsione sessuale, abbia messo in moto l’attività pensante, funzionando come un segno.
Se però si passa all’umanità civilizzata, si nota, nei primi codici scritti, delle formule stranamente contorte, il cui senso si è chiarito solo tenendo presente che il punto di vista, l’EGO parlante e pensante, è sempre e solo maschile, anche quando si tratta di norme che riguardano altri membri della società, come servi, bambini e donne: chiaro segno che siamo già nel patriarcato.
Per esempio, in un codice c’è una norma che vieta di fare sesso con due sorelle o la loro madre, seguita da una clausola insolita. Senza entrare nei dettagli: la norma mirava a stabilire semplicemente che una donna non può fare sesso con l’uomo di sua sorella o di sua madre. Ma questo linguaggio più semplice e diretto avrebbe fatto entrare in scena delle donne, le avrebbe messe nella posizione di soggetti sociali liberi, cioè responsabili del loro comportamento.
A distanza di millenni, colui che ha formulato la domanda potrebbe avere lo stesso problema: come posso far entrare nella scena simbolica chi non avrebbe titoli per entrarci?
Infatti, l’ordine patriarcale è ormai finito, ma c’è la sua eredità, fra cui, per gli uomini, la possibilità di identificarsi con un EGO sottinteso che parla da un punto di vista oggettivo.
A questa eredità del linguaggio neutro-maschile oggettivante, il femminismo della differenza si oppone con la pratica del partire da sé, che agli uomini risulta ostica.
Ricordo quell’onesto barone della facoltà di medicina che, durante una discussione, invitato a render conto di sé, rispose: scusate, a me hanno insegnato a non dire “io”.
Non a caso, le domande di questa intervista sono tutte formulate in un linguaggio neutro, che è inevitabilmente un neutro-maschile, per la surrogazione grammaticale del maschile. Ma il neutro-maschile di oggi, se politicamente aggiornato, è sempre anche non escludente verso le donne.
Ciò nonostante, nella domanda compare la differenza femminile. Qualcosa di simile fanno anche i responsabili di iniziative pubbliche: per evitare il sospetto di discriminare le donne, ne invitano a ogni buon conto una o due.
Il problema resta irrisolto e si vede. Nei codici antichi, lo mostra la formula arzigogolata delle due sorelle e la loro madre.
Nell’intervista, lo segnala il fatto che l’autore delle domande non sente l’esigenza di richiamarsi alla sua differenza e di dire qualcosa “al maschile”. Facile intuire il perché: lui, in quanto uomo, senza averlo scelto, per un’inconsapevole eredità, è già presente nella scena simbolica.
Il problema è reso insolubile dal modo in cui impostato. Non si può includere in un ordine simbolico quello che lo definisce con la propria esclusione. Bisogna disfarlo con una qualche mossa dirompente.
Per le donne, è stata la rivolta significata con il gesto della separazione, che alcune di noi hanno poi raccontato in un libro intitolato Non credere di avere dei diritti. Per gli uomini? Lo sapremo quando saranno riusciti a liberare la loro virilità ancora intrappolata nelle macerie patriarcali.
A proposito di codici, come esempio positivo di dirompenza simbolica segnalo il nostro codice di famiglia, introdotto negli scorsi anni Settanta. Lo segnalo perché, con una sola mossa, è riuscito a far fuori il patriarcato: ha spartito fra due l’autorità del capofamiglia.
Nella Politica, messo davanti a questa possibilità, il filosofo Aristotele, geniale anche per la consapevolezza che aveva di questi problemi, la respinge esplicitamente.
Come crede che internet e le nuove tecnologie di comunicazione stiano influenzando il modo in cui ci rapportiamo con gli altri? Siamo sempre più degli eremiti, chiusi nella nostra realtà virtuale? O la realtà virtuale è un mezzo per entrare in contatto reale con persone che altrimenti non avremo mai conosciuto? Come giudica la qualità di queste relazioni?
Riassumendo la mia posizione, penso che l’informatica e le sue tecnologie potevano essere un’affascinante avventura nella storia dell’umanità, se non fosse stato per l’invenzione del PC e discendenti, come lo smartphone.
L’accesso individuale, facile e sconsiderato a questa tecnologia con il suo immenso potenziale che riduce l’utente a meno di una formica, rischia di farne una mezza catastrofe per l’essere umano preso come singolo e come animale politico. Volendo fare un bilancio, finora la rete sembra comportare più minacce che benefici per la democrazia.
Domani? Siamo davanti all’ultima peripezia di una civiltà che si sviluppa senza sapere a che punto fermarsi e che, se si ferma, lo fa troppo tardi. La plastica, il motore a scoppio, l’energia atomica, la robotizzazione, la fecondazione assistita…, tutte cose in sé buone, ma sviluppate e applicate senza criteri precisi del come, perché, quanto.
Il movimento ecologista fa da sentinella, e sia benedetto, ma non può far la guardia a tutte le conseguenze di un’elementare e generalizzata perdita del buon senso.
Il buon senso viene prima e, se non lo ritroviamo, siamo perduti. Teniamo presente che, sullo slancio dello sviluppo cieco della tecnoscienza, dopo il lume del buon senso si perde anche quello dell’umanità, come insegnano Nagasaki e Hiroshima, per non parlare dell’eugenetica.
Per contribuire, nel mio piccolo, al ritrovamento di questa primaria virtù della vita associata, che corrisponde in filosofia al senso della misura e della necessaria mediazione, ripescherò qualche pensiero o sentimento che mi potrebbe aver ispirato comportamenti di cui ho costatato in seguito che erano buoni. L’ho capito con il senno di poi, lo riconosco: non sono un’apripista, sono una che rimugina.
Non ho mai avuto né guidato l’automobile. Perché? Intorno al 1950, nei pressi del mio paese, ci fu un grave incidente ferroviario per l’imprudenza congiunta della casellante e di un distributore di bombole di gas.
Quell’evento, nella memoria collettiva, restò impresso quanto un bombardamento dei tempi di guerra. Per contro, una volta, correndo sull’autostrada nell’auto di non so chi, vidi un’auto capovolta appena uscita di strada, e sul bordo un tale che gesticolava di fermarci o di non fermarci, chi lo sa, non saprò mai che cosa fosse successo, mi sono immaginata morta lì dentro e ho fatto il confronto: non voglio morire in una sciagura privata. Che differenza fa? Ugo Foscolo l’ha spiegato magnificamente nei Sepolcri.
Con questa risposta, volevo evocare alla grande il significato delle cose per l’essere umano (che è animale simbolico). Ma non l’avrei scritta (troppo sofisticata!) se non avessi pensato che le nuove tecnologie rendono accessibili a tutti le notizie necessarie per arrivare a capire la risposta stessa: chi è Foscolo e che cosa dice nei Sepolcri.
Viva la rete, dunque, ma che dire della sua incidenza sulle relazioni umane? Per ora, da quello che risulta a una come me, la risposta sembra essere: tutto e il contrario di tutto, la partita è aperta, come dicevo all’inizio.
In questa partita globale io gioco per far vincere un regime intrecciato di rapporti virtuali e di rapporti in presenza.
Come, in pratica? La Libreria delle donne ha un sito che viene alimentato da contributi di varia provenienza e viene curato da una redazione di parecchie donne e qualche uomo che si frequentano quotidianamente e si riuniscono settimanalmente: è la Redazione carnale, dove si parla, si ragiona, ci si confronta, si scambiano idee, si baruffa, e così via. E dove, cosa non secondaria, le differenze antropologiche (sessuale e generazionale) si esprimono nella concretezza delle interpretazioni individuali, diventando così significative. Libere (non nel senso che le decidiamo come ci pare e piace, ma che ci diventano rispondenti.)
Questo modo di produrre cultura politica ha un avversario nel PC, che, lo dice la parola, consente alla persona singola di mettersi direttamente in relazione con… Con chi o che cosa, a pensarci bene?
Chi fa un uso strumentale del PC, sa banalmente rispondere a questa domanda. Ma il successo del PC si deve principalmente a chi non sa rispondere. Come sappiamo tutti, un grande alleato del PC, quello che ha fatto il successo di fb, è il narcisismo in cerca di soddisfazione. Ci sono altri aspetti, sia chiaro, ma non ho le competenze necessarie per addentrarmi ulteriormente.
Tuttavia, ho la presunzione di saper riconoscere l’andamento della partita che si sta giocando e ho dei criteri di giudizio, che si sono formati con la politica delle donne.
Prendiamo le primavere arabe per le quali la rete ha funzionato come un formidabile fattore d’incremento e forse anche come vero e proprio incentivo. Ha reso possibili grandi manifestazioni di massa, risultato in sé eccellente, ma si poteva, anzi si doveva sapere e dire subito che integrare i rapporti virtuali con le manifestazioni di massa, non basta.
L’integrazione del mondo virtuale con l’esperienza del mondo reale, serve a dare all’individuo il senso della realtà e la misura delle cose, che ci vuole per non cadere preda delle fantasie: la verità soggettiva (scoprire il tuo movente interno, quale che sia, in presenza di altri) non è qualcosa di facoltativo nell’agire politico, oggi meno che mai proprio perché per la potenza dei mezzi d’informazione e comunicazione di cui disponiamo…
Disponiamo? Questo è il punto, infatti è meno sbagliato dire, di quei presunti mezzi, che loro dispongono di noi, capillarmente. “Noi siamo la merce”, La partita è aperta ed è una lotta.
Negli ultimi cinquant’anni, nelle società europee sono stati compiuti molteplici passi avanti in materia di diritto di famiglia e procreazione. Come giudica l’opposizione odierna a matrimoni gay e procreazione assistita? Crede che sia un qualcosa di fisiologico, che verrà spazzato via dal tempo, o la spinta reazionaria potrebbe imporsi e cancellare le conquiste ottenute?
Anni fa, esponenti della cultura di sinistra hanno fatto una decostruzione critica dell’idea di progresso; mi chiedo, leggendo questa domanda tipicamente progressista, se ne sia rimasta traccia.
Per il cosiddetto progresso vale, secondo me, quello che ci dobbiamo chiedere a proposito della crescita e dello sviluppo: in che direzione e con quali esiti, a vantaggio di chi o di che cosa?
Altrimenti accade che ci si orienti meccanicamente in un senso o nell’altro, senza criteri specifici, lasciando così che le cose procedano ciecamente nelle direzioni d’interessi precostituiti, se ci sono, o di moti inerziali. Spesso sembra la direzione del progresso, fino a quando si dirà: è troppo tardi.
Siamo ancora in tempo a fermare l’accumulo di potere dei giganti della Rete, i cosiddetti Gafam (Google, Amazon, Facebook e Microsoft)? Più banalmente, pensiamo alla plastica: siamo ancora in tempo per evitare il soffocamento di tanta fauna ittica?
La procreazione assistita, a parte altre considerazioni che non ho la competenza di riassumere con la dovuta precisione, chiama un’attenzione critica da parte delle persone responsabili come anche da parte dell’opinione pubblica, per il semplice e fondamentale motivo che questo ramo della tecnoscienza sviluppa tutto quello che potrebbe servire ai programmi dell’eugenetica.
La storia dell’eugenetica è un avvertimento a vigilare, oltre che un invito a ricordare. Non si tratta soltanto dei campi di sterminio nazisti, c’entrano anche i programmi sociali della socialdemocrazia svedese.
Il compito di vigilare in questo ambito non va lasciato alle forze conservatrici, bisogna assumerlo laicamente e lucidamente, come hanno cominciato a fare molte scienziate e pensatrici femministe per salvaguardare il benessere femminile e il primato femminile nella procreazione.
Quanto ai matrimoni gay, una vecchia femminista come me, amica di Corrado Levi e di Mario Mieli, resta ovviamente colpita dall’ondata d’imitazionismo dei modelli borghesi e dalla scarsa inventiva di modelli alternativi. Ma non giudico i bisogni simbolici altrui, cerco di capirli.

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