Chi non si è perso l’incontro con Picasso consentito fino allo scorso 7 gennaio dalla Collezione Peggy Guggenheim non può non essere stato preso dalla “macchina” assai incisiva, quanto per davvero piccola, della molto ben costituita mostra curata da Lucio Massimo Barbero. Breve il percorso espositivo, ma rilevante per il verso giusto dato all’aggancio critico ottenuto dal curatore con “sole” quattordici opere.
Come si sa, Picasso volle essere sempre puer aeternus. Di qui, non soffermarsi sull’inesauribile potere d’invenzione, senza sosta nascente in questo artista, significherebbe ignorare il valore di un’osservazione non casuale dovuta al grande storico dell’arte Gombrich, quando colse il lato apollineo di Picasso, ricordandoci che “rise di quanti vollero capire la sua arte”. O perché mai ad Apollinaire, il poeta a lui più vicino, venne da dire che nella sua arte “la sorpresa ride selvaggiamente”? Una più che convincente risposta nelle parole dello scrittore John Dos Passos, impressionato da Picasso negli anni Trenta:
I greci lo avrebbero chiamato deinos come avevano chiamato Ulisse.
Deinos, termine greco per attribuire a qualcuno o a qualcosa una natura al contempo mirabile, terribile, inquietante. Mirabile, terribile, così come in uno degli Inni Omerici ci appare Dioniso:
egli se ne stava seduto, e sorrideva con gli occhi scuri.
Ed è allo stesso modo che Picasso deinos, nascosto da qualche parte nella mostra alla Guggenheim, deve aver sorriso, guardando con i suoi “occhi scuri”, chi cercava di “capire” le sue opere. Per esempio il grande quadro Sulla spiaggia, uno dei capolavori cui ci si può accostare ogni giorno alla Guggenheim. Forse tra le immagini più filosofiche di Picasso: due figure femminili convergenti su di un “congegno” simile a una barca. Sullo sfondo, al di là del mare, sale una testa, il Sole, che da lontano punta lo sguardo sugli atti incantati di due donne interessate con intensità al “mondo” concavo offerto da una specie di piccola arca. La Testa sorvegliante, nel suo sporgersi al di sopra dell’orizzonte, sembra volersi avvicinare ancor di più su quel punto di convergenza femmineo offerto dalla barca o conca o mandolino, stabilendo così un intervallo di tempo, che diviene il Tempo dell’ineffabile.

Pablo Picasso, Sulla spiaggia (La Baignade), 1937.
Ma l’oggetto “che accoglie” si presenta più volte nell’opera di Picasso, svelandosi mediante strumenti musicali o altri aspetti della concavità. Si veda il mandolino appena appoggiato sul corpo della donna in primo piano in L’Aubade (1942) che, come la barca di Sulla spiaggia (1937), ci rimanda al Sartre intimamente veneziano dell’autunno 1951, quando dice: “l’esterno della gondola pare uno strumento musicale dipinto da Picasso”. Ed è proprio in quell’innesto femmineo, quasi imbarcazione sacrificale forse vicina a essere congiunta con il mare, che approda il Tempo dell’ineffabile sospinto nel grande quadro del 1937.

Pablo Picasso, L’aubade (Serenata al mattino), 1942.
Esattamente trent’anni prima della barca-coppa-mandolino, giunta sulla “spiaggia” nello stesso anno di Guernica (qui i contorni della paradossale discontinuità nel mistero Picasso), c’era stato l’anticipo di un’altra ben più spalancata “concavità”. Che è inclinazione all’assalto nel suo presentarsi tagliente, perforante, seppure datrice di energie dissetanti, quella fetta d’anguria che “penetra”, conficcata com’è ai piedi delle Demoiselles d’Avignon nel “colpevolissimo 1907” dell’arte moderna. La fetta d’anguria, frutto succoso, stimolante desideri, in quell’anno si solleva non ancora in forma di barca, bensì nel segno di una falce rossa per fare delle Demoiselles un rito apotropaico, dove il corno rosso è il punto focale dello “stile erettile” approntato per le impudiche “demoiselles”, minacciosamente assise di fronte a Picasso e a noi.

Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon, 1907.
Sempre alla Guggenheim si conservano le due parti celeberrime dell’incisione ad acquatinta universalmente note come Il sogno e la menzogna di Franco, opera del 1937 ma diversissima da quanto creato, quasi negli stessi giorni, con Sulla spiaggia da un Picasso per davvero deinos. Se con il militante “fumetto” delle diciannove vignette di Sogno e menzogna si dà civilissima testimonianza del vortice di afflizioni e violenze scatenato da un orrido e scarafaggesco simulacro del bestiale Franco contro il popolo spagnolo, anche lì tuttavia si scopre la discontinuità/continuità di segni e forme che ci rinviano ad altre opere, contemporanee o appena precedenti, senza escludere tutto ciò che ritroveremo nello stesso 1937, anno mirabile di Picasso, quello appunto di Guernica.
Così, probabilmente, rientrano nella categoria del grottesco quella sorta di figure retiformi (in vorticosa evidenza anche nel caso della Bagnante alla cabina che salta la corda) e che sembrano sgonfiarsi, restringersi, allungarsi, mediante linee che si sovrappongono per meglio sfigurare l’osceno Franco, mentre infetta la Spagna nel tragico e dolorosissimo “fumetto” ideato per essere volantino rivoluzionario. In più modi inventando, manipolando, rivisitando, mutando quanto apparteneva all’universo dei suoi “materiali” artistici, Picasso ha di continuo affermato la sua, parole di Schapiro, demoniaca “fiducia nell’arte come processo di radicale trasformazione”.
Questo e molto altro nel trascorso 2017, ma nel 2018? Si sa già che durante l’estate e l’autunno di quest’anno la Guggenheim di Venezia non mancherà di compiere un identitario “salto all’indietro”, che la porterà, affinché ne sia serbata memoria, a uno dei momenti più alti della sorprendente Biennale del 1948. In quell’anno, nei Giardini di Castello, lo spirito e le costellazioni del moderno si impossessarono del padiglione della Grecia, trasformata in casa di Peggy, che dette spazio al nuovo Occidente dell’arte del XX secolo con 136 opere, tra cui sei di Picasso. Nella sua presentazione Argan, nell’accennare alle più importanti correnti artistiche documentate nella raccolta di Peggy, riporta solo i nomi di tre artisti: Kandinsky, Klee e Picasso, chiamando gli ultimi due “artisti perfetti”.

Peggy Guggenheim. Nella sorprendente Biennale del 1948, dette spazio adette spazio al nuovo Occidente dell’arte del XX secolo con 136 opere, tra cui sei di Picasso.
Ma quella Biennale resterà per sempre la Biennale di Rodolfo Pallucchini. Prima ancora che segretario generale dell’istituzione culturale veneziana Pallucchini fu soprattutto instancabile custode, “tessitore” e maestro delle cose della storia dell’arte veneta, capace però di compiere la grandissima impresa di portare in Italia le conquiste generatrici della modernità estetica e artistica più d’avanguardia. Sentì un suo dovere di intellettuale far sì che la
prima Biennale del dopoguerra rivolgesse l’invito ai grandi artisti che hanno difeso, in tristi momenti, la libertà della cultura occidentale europea.
Tra costoro Picasso, che nella sala numero cinquanta consentì la sua prima esposizione in Italia con 22 opere, create lungo un arco di tempo partito dal “colpevolissimo” 1907. Mostra “combinata direttamente” con l’artista, annotò Pallucchini. Saprà la Biennale della nostra “innominabile attualità” (non) dimenticare l’anno in cui si videro le opere degli “artisti perfetti”?
Questo articolo, in versione breve, è apparso su La Nuova di Venezia e Mestre, Il Mattino di Padova e La Tribuna di Treviso.

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