Siria, la ricostruzione fallita, la guerra diretta alle porte

Trump ha scelto di rompere e si attende l’annuncio ufficiale del ritiro americano dall’accordo sul nucleare iraniano. La Siria rischia così di diventare il campo di battaglia di una guerra tra Israele e Iran, mentre la comunità internazionale registra il suo ennesimo fallimento alla conferenza dei paesi donatori svoltasi a Bruxelles.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Ci ha provato Macron. Ritentato Angela Merkel. Inutilmente. Perché Donald Trump ha scelto di rompere e ora si attende solo l’annuncio ufficiale del ritiro americano dall’accordo sul nucleare con l’Iran. Il dado è tratto e ciò che avverrà dopo il 12 maggio, data di scadenza fissata dal presidente Usa agli altri partner del “Cinque più uno” (Gran Bretagna, Russia, Francia e Germania) per riscrivere l’accordo sul nucleare, è destinato a modificare non solo lo scenario siriano e mediorientale ma anche la tradizionale partnership euroatlantica.

Quella di Trump è anche una vittoria “culturale” nei confronti dei suoi due interlocutori venuti dal Vecchio Continente, costretti a esibire un sovranismo nazionale che, come tale, risulta subalterno e marginale rispetto ad “America first”.

Nel suo recente incontro alla Casa Bianca con The Donald, Macron aveva provato a convincere il presidente Usa a negoziare un’integrazione dell’accordo sul nucleare iraniano sottoscritto nel 2015, affrontando la questione dello sviluppo missilistico di Teheran e il coinvolgimento in Medio Oriente. Niente da fare. Trump ha mantenuto il punto e scelto con chi stare e chi, invece, scaricare: stare con Israele e Arabia saudita, scaricare invece l’Europa che quell’accordo, per Trump “il più nefasto nella storia degli Stati Uniti”, continua a difendere.

E sì che il giovane e attivissimo presidente francese le aveva provate tutte per convincere Trump a rivedere la sua intransigenza.

Nell’incontro alla Casa Bianca, nelle dichiarazioni alla stampa, nel suo discorso al Congresso, Macron aveva tratteggiato i punti-chiave di un “Piano B”: “si deve lavorare per costruire con l’Iran un accordo nuovo fondato su quattro pilastri”. Ossia l’accordo esistente come base; la certezza che dopo il 2025, allo scadere dell’intesa attuale, l’Iran continui a non avere la bomba atomica; il monitoraggio dell’attività missilistica iraniana che minaccia l’intera regione, Israele compreso; il contenimento dell’influenza militare iraniana in Medio Oriente.

Da Teheran e da Mosca arriva uno scontato no assoluto, durissimo quello di Hassan Rouhani. “Con quale diritto parla Macron ignorando le posizioni degli altri paesi Ue che hanno siglato l’intesa del 2015?”, tuona il solitamente moderato, almeno nei toni, presidente iraniano. E Trump, che “è un commerciante, un imprenditore, un palazzinaro, come può giudicare questioni globali?”. Ma il tycoon alla guida dell’America giudica, sentenzia e agisce. Apre e chiude porte: apre quella con la Corea del Nord di Kim Jong-un, sbarra quella con l’Iran di Hassan Rouhani e soprattutto della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Nel suo “America first”, non c’è spazio per partnership alla pari, ma solo per alleanze variabili. Vale per la Francia come per la Germania.

Nel suo recente incontro alla Casa Bianca con trump, Macron ha provato a discutere con il presidente Usa dell’accordo sul nucleare iraniano, ma inutilmente.

In questo scenario in divenire, la Siria rischia di essere il campo di battaglia della guerra diretta tra Israele e Iran. “Se gli iraniani mettono nel mirino Tel Aviv, noi colpiremo Teheran e le basi militari iraniane, come abbiamo fatto in Siria”. Parola di Avigdor Lieberman, ministro della Difesa israeliano. Tempi e luogo di questo avvertimento rafforzano il contenuto del messaggio. Lieberman, uno dei falchi del governo Netanyahu, usa i media sauditi per un’intervista che rafforza il legame tra Gerusalemme e Riyadh contro il comune nemico persiano.

Inoltre, Lieberman fa queste affermazioni dopo aver incontrato, negli Usa, il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton (il più accanito sostenitore del pugno di ferro contro Teheran), e il segretario alla difesa, il generale James Mattis. “Israele non vuole la Guerra, ma se l’Iran attacca Tel Aviv, noi colpiremo Teheran”, avverte Lieberman, parlando in arabo al website saudita, con sede a Londra, Elaph.

Israele preme sull’amministrazione Trump perché non ammorbidisca le sue posizioni sulla rimessa in discussione dell’accordo sul nucleare iraniano. Preme e vince. Con il supporto decisivo dell’Arabia Saudita. Una cosa è certa: se guerra diretta ci sarà tra Israele e Iran sarà la prima, nella lunga serie di conflitti che hanno segnato le vicende mediorientali, nella quale non sarà lo stato ebraico versus i paesi arabi e musulmani, perché a fianco di Israele, nelle forme che verranno decise dai rispettivi comandi militari, vi sarà il regno Saud, custode di Mecca e Medina. Qualcosa di epocale, che fa impallidire la stessa decisione di Riyadh di ospitare sul sacro suolo musulmano le armate americane nella prima guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein.

L’alleanza tra Israele e Arabia Saudita, in funzione di contenimento della penetrazione sciita in Medio Oriente, smonta anche la comoda narrazione di una regione segnata, nei suoi tanti conflitti, dallo scontro sciiti-sunniti. Non è la religione alla base della destabilizzazione del Grande Medio Oriente, ma ambizioni di potenza, disegni neoimperiali, fino al controllo delle due grandi risorse che hanno scatenato guerre a non finire: il petrolio e l’acqua. Per questo, la Siria non avrà pace. E neanche ricostruzione.

La II Conferenza dei Paesi donatori si è tenuta il 24 e 25 aprile a Bruxelles. Dalla comunità internazionale ancora una volta non è arrivato ciò che serviva per garantire un futuro al popolo siriano.

Siria, un Paese da ricostruire dalle fondamenta dopo una guerra, ancora non conclusa, che in otto anni ha provocato oltre 520 mila morti, 6 milioni di profughi, villaggi rasi al suolo, città ridotte a un cumulo di macerie. Ma la comunità internazionale registra il suo ennesimo fallimento: quello che è emerso dalla seconda conferenza dei paesi donatori svoltasi nei giorni scorsi a Bruxelles. Dalla comunità internazionale ancora una volta non è arrivato ciò che serviva davvero per garantire un futuro al popolo siriano. È la denuncia diffusa da Oxfam all’indomani della Conferenza di Bruxelles sulla crisi. Così rileva Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia:

Nonostante le preoccupazioni espresse dai diversi governi a Bruxelles per la crescente ondata di violenze in Siria, le dichiarazioni di intenti non si tradurranno in azioni sufficienti a lenire l’indicibile sofferenza che questa guerra continua a causare a centinaia di migliaia di famiglie dentro e fuori la Siria. L’impegno dei paesi più ricchi del mondo a sostegno della risposta umanitaria resta ancora tragicamente inadeguato, sia verso gli oltre 13 milioni di persone che dipendono dagli aiuti umanitari all’interno del paese, che per i 5,6 milioni di rifugiati scappati in Libano, Giordania, Iraq e Turchia. Nonostante crescano i bisogni dei siriani, sono oltre 700 mila gli sfollati dall’inizio dell’anno nel Paese, nel complesso gli stanziamenti per la risposta umanitaria saranno decisamente meno di quelli impegnati l’anno scorso. Quanto all’Italia, per quanto si registri un sensibile aumento dei fondi donati con un impegno per il 2018 di 48 milioni di euro, siamo ancora ben lontani dallo sforzo effettuato da altri paesi europei, come ad esempio i 104 donati dalla Francia o addirittura gli 829 donati dalla Germania.

E conclude così Pezzati:

Come se non bastasse, nel corso della conferenza non è stato fatto nessun significativo passo in avanti per l’avvio di un vero processo di pace, mentre il peso dell’accoglienza dei profughi siriani resta sulle spalle dei paesi vicini alla Siria, nel quasi totale disinteresse dei paesi ricchi che al momento stanno ospitando solo il 3% dei siriani costretti a lasciare il proprio paese a causa della guerra. Sebbene al momento l’85% dei bambini siriani registrati come rifugiati viva al di sotto della soglia di povertà.

A questo quadro drammatico si aggiungono i diritti negati a circa 2,7 milioni di bambini dentro e fuori dalla Siria che ancora non possono tornare a scuola: uno su tre. Nonostante gli oltre sette anni di guerra in Siria quasi cinque milioni di bambini siriani vanno a scuola, ma altri 2,8 sono senza istruzione.

Drammatiche le cifre aggiornate dall’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia: dall’inizio del conflitto nel 2011 sono state attaccate 309 strutture scolastiche e una scuola su tre non può più essere utilizzata; circa il quaranta per cento dei bambini che non vanno a scuola hanno fra i quindici e i diciassette anni, rendendoli vulnerabili allo sfruttamento: matrimoni precoci, reclutamento nei conflitti e lavoro infantile. Queste problematiche, afferma l’Unicef, si stanno diffondendo visto che le famiglie stanno facendo sempre più affidamento su misure di sopravvivenza estreme. Per quanto riguarda i bambini che vanno a scuola, il rischio di abbandono incombe mentre affrontano gli impatti del trauma.

La ricostruzione non è però un tema umanitario, ma profondamente politico. Perché chiama in causa vecchie e nuove alleanze. Perché laddove non sono riuscite le armi, possono arrivare i petrodollari necessari per risollevare un paese in ginocchio, un’economia distrutta. Assad lo sa bene, ed è per questo che, forte dei successi militari degli ultimi tempi, ha provato a indirizzare la ricostruzione verso i suoi alleati russi e iraniani.

Ma il “dominus mediorientale” che alberga al Cremlino, il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, sa bene che per ergersi a garante della “pax siriana” deve provare a tirar dentro le monarchie sunnite del Golfo e a non avere contro Israele. Ma con la pressoché certa decisione americana di uscire dall’accordo sul nucleare, Putin si vede costretto ad abbracciare la causa iraniana, il che si traduce, sul quadrante siriano, nel rafforzamento militare di Assad.

Va in questa direzione la notizia che la Russia potrebbe presto dislocare in Siria i missili di difesa aerea S-300, in grado di contrastare efficacemente attacchi aerei o missilistici. Israele ha subito risposto affermando che vedrebbe questo atto come una minaccia “grave” alla propria sicurezza, anche perché questi missili, capaci di raggiungere Gerusalemme e Tel Aviv con una precisione ottimale, sarebbero a disposizione dei comandi dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, da tempo dislocati in Siria.

Sono tutti segnali che indicano un’ulteriore escalation della guerra siriana: iniziata come guerra civile, divenuta ben presto guerra per procura intrecciata con la guerra all’Isis, e oggi trasformata in una guerra globale diretta, le cui conseguenze andranno ben oltre il teatro mediorientale. Perché una guerra globale produrrà inevitabilmente altri milioni di profughi che renderanno impossibile una loro gestione nei paesi confinati, in primis Libano e Giordania, e porranno l’Europa di fronte a una nuova, massiccia, emergenza migranti.

Anche facendo sfoggio dell’ottimismo della volontà, si fa fatica a intravedere un barlume di luce fuori dal lungo tunnel siriano.

Siria, la ricostruzione fallita, la guerra diretta alle porte ultima modifica: 2018-04-27T19:04:46+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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