Esperimento letterario: senza appoggi, alzate una gamba e restate su un piede solo per un po’. Se vi sentite ancora stabili provate a chiudere gli occhi. E a quel punto ascoltatevi dentro.
In questa posizione precaria infatti potreste facilmente immedesimarvi nei personaggi del romanzo “La boutique”, di Eliana Bouchard (Bollati Boringhieri Editore).
Mancanza di equilibrio: per Nina che è tornata in Italia dopo un passato newyorchese e che ha aperto la boutique, appunto; per Teresa che vuole fare l’imprenditrice senza avere il piglio da padrona, per Elvira che prova a tenere tutto insieme con solo due mani, per Rajiv, indiano di origine, italiano di nascita, omosessuale nei sentimenti, dilaniato in amore. E se la boutique è il sole e questi i suoi pianeti, vi sono attratti i satelliti che turbinano in orbita: Pietro, marito di Elvira con un percorso professionale e di vita tutt’altro che lineare, Francesco il loro figlio maggiore che sulla soglia dell’età adulta si sbilancia tra l’essere uomo e figlio; Federico, amore di Rajiv, che vive una sua realtà parallela fatta di illusioni e incantamenti e così via, tra figli più piccoli e persino due cani che si ritrovano sbilanciati negli affetti, esattamente come gli umani.
E poi c’è Ibrahim:
La spina – come sottolinea Eliana Bouchard – che si insinua sotto la pelle, non fa sanguinare ma punge, si fa sentire. Lui è l’uomo interiore, ha dentro di sé un motore che lo spinge, è autosufficiente.
Ibrahim, viene da lontano, non solo geograficamente parlando: in Afghanistan ha vissuto lo sconquasso, totale. Eppure è determinato, sa il suo percorso, sa scegliere. E fa da specchio a tutti i pianeti che orbitano intorno alla boutique, mettendo in luce le loro incertezze, facendo affiorare i loro dubbi, rivelando che non siamo fatti per stare su una gamba sola, e neppure con gli occhi chiusi. E che un negozio, per quanto florido, non può essere il puntello di nessuno.
Via dei Gavitelli, dove sta la boutique, è totalmente inventata – spiega Bouchard – ma l’ho chiamata così proprio perché i gavitelli servono ad ancorarti.
I personaggi cercano appoggio, provano a stare in equilibrio e quando si sentono affondare, la boutique sembra li sostenga, o comunque fa da centro gravitazionale. Quindi seppure caschino si illudono di essere ancora in piedi.
“Si alza veloce, il ritmo ascendente contagia Rajiv che si solleva da terra e raggiunge il bagno dopo aver ritrovato il suo passo leggero; sta lì a lungo, a contemplarsi allo specchio per cercare se stesso”.
È Nina ad alzarsi veloce, è Nina che si addossa una responsabilità materna per il giovane indiano. Ma è solo un alibi, in realtà “Nina è respingente”, avverte l’autrice.
Persino nel donare, nel mostrarsi generosa allontana, o comunque tiene le distanze, perché se invita ordina, quando regala decide, fa proprie le proposte altrui, e non chiede mai. Chiedere è segno di debolezza.
Ogni personaggio ha un carattere delineato con pochissime parole, l’identità si profila negli atteggiamenti, nel relazionarsi con gli altri, persino nel non detto.
Chiedo una parola per ogni protagonista a Eliana Bouchard, che ha creato un testo ricco di sensibilità e suggerimenti, intimo eppure ben marcato, che accompagna il lettore nella boutique e lo aspetta sulla soglia dandogli tutto il tempo per osservare, apprezzare e “comperare”, se vuole, solo ciò di cui ha bisogno.
Teresa è socia al dieci per cento della boutique con Nina, e sembra faccia un passo avanti e due indietro. È “con le migliori intenzioni”, commenta Bouchard.
Rafa, il marito di Teresa è invece in una parola accogliente, spiega l’autrice.
Per quel personaggio mi sono ispirata a Rafa Benitez, ex allenatore del Napoli – rivela -. Mio marito è un tifoso del Napoli e non so quante partite mi sono vista con Rafa in tv. Alla fine viveva praticamente in salotto con noi. E lui è un omone, buono, presente. C’è. Il marito di Teresa, appunto.
Elvira è giunonica, basta questo. Mentre Pietro, suo marito, è furbo, ma non nell’accezione negativa: procede furbescamente. Qui avevo in mente Oscar Farinetti, (proprietario di Eataly, ndr); mentre scrivevo ci vedevo lui, non chiedetemi perché.
Il figlio di Elvira e Pietro, Francesco, invece è il futuro, la speranza. Semplicemente tutto quello che potrebbe avvenire dopo.
E Federico? “Eh, Federico è tormentato. Ha una consapevolezza ma è tormentato”, ammette con una punta di sofferenza Bouchard.
“Chiunque può essere affascinato dal movimento dell’acqua, da un vortice, da una tempesta, ci sono dei fenomeni naturali a cui è difficile resistere”. Questo rivela Federico, appunto: parla dell’acqua, ma parla anche del suo amore per Rajiv, e della vita stessa. Non è facile per Federico uscire dalla tormenta. Senza svelare nulla del romanzo diciamo che un pugno in faccia lo raddrizzerà invece di farlo cadere a terra.
E questo è un altro pregio di Bouchard: l’equilibrio è ricercato e addirittura trovato dove si scommetterebbe la precarietà: per esempio nella crisi economica, o in un lavoro perso, o nello straniero che si fa avanti invece di non farsi notare, o in un tratto di vitalità che sparisce, e persino in un vaso di cristallo che si rompe in mille pezzi.
“La partenza di Rajiv non ha colpito soltanto Nina, Teresa ammette di averlo sottovalutato, di non aver capito quanto il suo carattere fosse importante nello stabilizzare l’equilibrio precario della piccola impresa e lo rimpiange”. Teresa rimpiange qualcun altro, ma questa frase potrebbe valere per lei, se solo avesse la forza di dirselo allo specchio.
“Teresa l’aveva guardata, schermandosi gli occhi con la mano spiegata, le era sembrato che Nina stesse recitando una parte, ma guardandola meglio aveva pensato che stesse semplicemente provando a esistere prendendo gli altri a esempio. Se passava le domeniche a dondolarsi sull’altalena perché non arrampicarsi sui rami? Sempre di esercizi di equilibrio si trattava”. Tutto ruota intorno alla boutique in cui Nina, proprietaria al novanta per cento sul contratto e al duecento per cento in attitudine, la fa da padrona come nel romanzo. Eppure riesce persino a tener lontano il lettore ad ogni riga: è la più recalcitrante a farsi conoscere, non si apre per nulla, ci nasconde il suo passato e il suo presente, non vuole saperne del suo futuro. Ma Ibrahim non è intaccabile da tutto ciò. Lui resta folgorato dalla luce di Nina che lo attrae come un magnete e subito dopo, semplicemente, lui è lui: una spina, che si inserisce nella carne viva e sta lì, senza muoversi; non fa male, non esce, non entra di più. Si fa sentire, sempre; come una spina.
Nina finge persino con se stessa che la spina non esista, e quindi inutile levare una cosa che non c’è. Ma quando si rende conto di quella presenza costante, di un corpo estraneo, seppur minuscolo, ormai fa già parte di lei, difficile a quel punto eliminarlo.
Ed Eliana Bouchard inserisce una piccola spina dentro ognuno di noi, con questo libro:
L’ho scritto pensando a chi è diverso da me. Ho sempre scritto libri riguardanti il passato, ora ho voluto parlare di persone che vivono nel presente, avevo bisogno di stare nella realtà, identificare l’altro, quello diverso da me, di guardarlo negli occhi.
Quando scrivo mi capita di sentire la presenza di un osservatore, una specie di interlocutore esigente che vive al di là dello schermo e storce il naso, raramente approva, giudica e non ne fa passare una. A parlare di quel che non si sa si rischia grosso e per non irritare il censore cerco di informarmi il più possibile. Parlare di un afghano senza conoscere né gli afghani né l’Afghanistan impone quanto meno di informarsi. C’è un bel catalogo della fotografa Monika Bulaj, a questo proposito, che mi ha permesso di viaggiare stando a casa mia, un catalogo intitolato Nur, il nome della moglie di Ibrahim.
Il romanzo è scandito anche da un titolo per ogni capitolo, e ogni capitolo contiene un momento di vita, o una decisione, la rivelazione di un’identità, o un ponte per arrivare da un’altra parte. Preparativi, rovesci, ritorno, approfondimenti…
Una parola ha dentro un mondo – spiega Bouchard – lavanderia, ad esempio: in quel capitolo ci sono diverse parole che racchiudono l’intero mondo del lavoro.
E ogni mondo è costituito da termini ben definiti, come le persone e anche le storie. “La boutique” resta con un finale aperto, in qualche modo, per ognuno dei personaggi.
Tutti stanno per fare un passo, non sappiamo in che direzione. E questo riguarda ciascuno di noi – dichiara Eliana Bouchard -. Il lettore ha la responsabilità di decidere del futuro dei personaggi. È una responsabilità implicita nell’atto di chiudere il libro, sempre che i personaggi siano riusciti a penetrare nella sua immaginazione.
Da lettrice appassionata io la mia fine l’ho attribuita: a Nina e a Ibrahim, e a Teresa ed Elvira. E a tutti gli altri. Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con chi il libro l’ha scritto.
Un’amica di famiglia, novantacinquenne, mi ha telefonato pregandomi di confermare la sua interpretazione personale del capitolo conclusivo. Voleva la certezza di aver capito bene. Infatti aveva capito benissimo. Aveva capito quel che voleva capire. Per chi scrive è appagante sapere che ciascuno ci mette del suo, conclude o meno la storia a suo piacimento. Vuol dire che la storia è viva e continua.
Grazie alla tecnologia dell’oggi, qualunque lettore può dire la sua a Eliana Bouchard: scrivetele, se vi va, alla pagina Facebook.
Non ci sarà un sequel sulla carta, non è possibile secondo l’autrice, ma nessuno ci impedisce di continuare a frequentare Nina o Teresa via computer. Oppure, alziamo una gamba, restiamo su un piede solo e chiudiamo gli occhi. In un attimo ci ritroveremo nella boutique di via dei Gavitelli.

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