G. Belzoni, l’Indiana Jones che ispirò Spielberg

Giovanni Battista "Giobatta" Bolzon, in arte Belzoni, fu archelogo, esploratore e sognatore. Ma anche apprendista barbiere, monaco, venditore di oggetti sacri, circense, amico di potenti e letterati. Una vita avventurosa nel fine 700 da cui hanno tratto spunto l’arte e il cinema.
BARBARA MARENGO
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Quella bottega di barbiere al Portello di Padova gli andava veramente stretta: Giovanni Battista, Giobatta per la numerosa famiglia, era un gran bel ragazzo, curioso e intelligente, sempre avanti con la mente e la fantasia. In questa città vivace di fine Settecento il ragazzo Bolzon gravitava attorno al porto fluviale, al quartiere del Portello appunto, dove migliaia di viaggiatori da tutto il mondo passavano per arrivare a Venezia con il burchiello lungo la Brenta: lingue, costumi, bagagli e conoscenze che affascinavano il giovane apprendista barbiere.

Giovanni Battista era nato sotto il dominio della Serenissima Repubblica di San Marco nel 1778. Nessuno poteva immaginare che il giovane Bolzon fosse in procinto di iniziare un percorso di vita che più avventuroso non si può, in un susseguirsi di avvenimenti che lo portarono persino a cambiare cognome da Bolzon a Belzoni, perché fosse più riconoscibile come italiano in Inghilterra.

Padova, porto fluviale chiamato Portello

Ma andiamo con ordine: a sedici anni, al seguito del nobile veneziano Vivanti, Giovanni Battista partì per Roma, dove studiò nozioni di ingegneria idraulica, si fece monaco, fuggì rinunciando ai voti per non essere arruolato nell’esercito di Napoleone, arrivò a Parigi dove cercò di vivere vendendo oggetti sacri. Passò poi in Olanda ed in Inghilterra, dove arrivò nel 1803, si sposò con Sara Parker e visse nove anni diventando cittadino inglese.

A Londra il suo cognome con tipica finale veneta tronca in “n” veniva male pronunciato: ecco perché si registrò come Belzoni e gli amici, molti ed importanti, lo chiamavano Giovanni, accentuando la “G”. Ma come mai il nostro riesce a diventare amico del fratello del Re Giorgio III, avere la stima di Byron, Disraeli, Ugo Foscolo?

Era un uomo di buon carattere, generoso, romantico, buon cristiano, intelligente ed innovativo, lungimirante, che non esitò a lavorare al teatro Sadler’s Wells ed al circo Astley come uomo forzuto: il suo passaporto, conservato al museo degli Eremitani a Padova, lo descrive con occhi blu, capelli rossi, naso regolare. Alto più di due metri e di corporatura armoniosa, inventò una sorta di giogo sul quale si arrampicavano fino a quindici persone, che Giovanni portava a spasso durante lo spettacolo.

Un disegno dell’epoca lo ritrae con i muscoli in evidenza, appena coperto da un telo nelle parti intime, con un copricapo eclettico con gemme e piume. Assieme allo spettacolo dove si faceva chiamare Samson Patagonian, Giovanni ideò un sistema di macchine idrauliche capaci di creare fantasmagoriche fontane contornate da fuochi, che suscitarono molto scalpore.

Viaggiò con lo spettacolo in Spagna e Portogallo, approdando a Malta dove la sua vita ebbe una svolta: conobbe Ismael Gibraltar, che si occupava di rapporti con l’estero per conto di Mehemet Ali, pascià d’Egitto sotto l’Impero ottomano.

Giovanni intuì che i suoi studi idraulici avrebbero potuto trovare finalmente un’applicazione nelle fertili terre del Nilo, e partì. Arrivato al Cairo, rimase estasiato davanti ai potenti reperti archeologici degli antichi regni, così come era rimasto colpito dai monumenti della Roma antica.

Grazie alla – temporanea – amicizia con Bernardino Drovetti, piemontese console generale di Francia, fu introdotto a corte, dove presentò i suoi progetti legati alla migliore gestione delle acque del Nilo.

Sempre al Cairo conobbe Johann Ludwig Burckardt, esploratore svizzero che con il nome di Sheik Ibrahim ben Abdallah viaggiò in Medio Oriente fino a scoprire la stupefacente città dei Nabatei, Petra (1812). Burckardt divenne un vero amico, compagno di avventure assieme al console britannico Henry Salt, oltre che socio nelle nuove esaltanti imprese di ricerca di reperti antichi.

In questi primi anni del diciannovesimo secolo l’Egitto con le sue imponenti vestigia non era molto conosciuto in Europa, dove non esisteva ancora il concetto di “scoperte”, né tanto meno una disciplina archeologica: gli europei che vivevano sulla sponda sud del Mediterraneo erano affascinati da monumenti non ancora scavati ma affioranti lungo tutto il corso del Nilo, a Nord fino ad Abu Simbel passando dalla Valle dei Re fino alle piramidi di Giza. Napoleone aveva portato nella vecchia Europa immagini e reperti dell’ancor più antico Regno del Nilo, incrementando così l’interesse per l’esotico e monumentale Egitto.

Nei pressi dell’antica Tebe, un busto di pietra chiamato Memnone ma poi rivelatosi Ramsete II, doveva essere trasportato fino alla riva del Nilo, e da qui fino al British Museum: era questa la politica dell’Impero britannico che tramite il suo rappresentante diplomatico Salt cercava e inviava reperti a Londra, presso quel museo creato dal naturalista sir Sloane e aperto al pubblico nel 1759.

Fu questa l’occasione per Giovanni, seguito dalla moglie Sara, che accettò la sfida proposta dal console Salt assieme all’amico Burkardt: riuscire a muovere sette tonnellate di pietra lungo oltre mille metri di sabbia e depositare l’enorme busto di Memnone – Ramsete – sulla chiatta che lungo il Nilo doveva raggiungere il Cairo e proseguire per l’Inghilterra.

In un torrido luglio del 1816, aiutato da ottanta operai, in quindici giorni di lavoro tra slitte, leve e corde, Giovanni portò la statua fino al Nilo, con una ulteriore soddisfazione: riuscire dove anni prima l’esercito di Napoleone aveva fallito, rovinando addirittura la statua che presenta un buco sul lato della spalla destra, causato dai soldati francesi che con l’esplosivo tentarono di spostarla. Napoleone infatti dal 1798 al 1801 scorrazzò per l’Egitto seguito da trentottomila soldati e centosessanta scienziati, naturalisti e storici che raccolsero enormi quantità di informazioni e materiale trasportato in Europa. Il busto di Ramsete alto oltre due metri fu uno dei reperti che Bonaparte volle trasportare senza successo in Francia.

Il volto era rivolto verso il cielo e si sarebbe detto che sorridesse all’idea di essere trasportato in Inghilterra. La sua bellezza più che la sua grandezza, superava ogni aspettativa.

così scrive Belzoni nelle sue memorie e illustra con quarantaquattro disegni l’intera sequenza dei lavori per il trasporto del busto del Faraone, assieme alle macchine ideate per lo spostamento.

Uno “scherzo” di attrattive inglesi, primo raffigurato Belzoni in abiti di scena quando si esibiva a teatro e al circo

Inizia da Tebe un’ulteriore spedizione verso sud. Il nostro ad Assuan sempre per gli inglesi prese possesso di altri reperti, prima di tornare verso la Valle dei Re. Sulla riva del Nilo, Giovanni, seguendo intuizioni e conoscenze idrogeologiche, scopre sette tombe contrassegnandole con la sigla KV, King Valley, la stessa dicitura in voga oggi. E lascia la sua firma sulle pareti delle tombe, “scoperta da Belzoni 1816”.

Inizia per Giovanni Battista Belzoni un periodo di tensioni: con il piemontese Drovetti soprattutto, che spinto forse da gelosia per i successi del padovano, convince il governatore locale a proibire a Belzoni di continuare a scavare.

La tomba di Seti contrassegnata KV17, sensazionale scoperta di Belzoni e che verrà chiamata la Cappella Sistina egizia, assieme al sarcofago in alabastro, fu ulteriore motivo di contesa con Drovetti.

Tornato al Cairo, Giovanni stazionò attorno alle piramidi di Giza e scopri l’ingresso della piramide di Chefren, entrando nella camera del sepolcro e lasciandovi la sua eloquente firma.

Ripartì per il Sud, dopo la morte dell’amico Burkardt, e ancora una volta trovò sul suo cammino Salt e Drovetti, che avevano occupato il terreno di ricerca nei dintorni di Tebe. Giovanni allora attraversò il deserto verso est, fino al Mar Rosso, dove scavò il porto di Berenice.

I finanziamenti elargiti sempre con meno abbondanza dagli inglesi, assieme a una crescente nostalgia per famiglia e città d’origine, fecero sì che Giovanni decidesse di rientrare in Italia: nel 1819 arriva a Venezia via nave, passa la quarantena obbligatoria nell’isola di Poveglia, nel cuore della Laguna. La Gazzetta di Venezia dà notizia della sua presenza in città verso la fine dello stesso anno, parlando di lui come eminente personalità di esploratore eclettico. La Venezia che pochi anni prima il Belzoni aveva lasciato, non esiste più: dopo Napoleone e il Congresso di Vienna, l’Austria ha preso possesso del dominio di terra dell’antica Repubblica, dopo mille anni.

A Padova due fratelli e una sorella attendono la coppia esotica, Giovanni e Sara. Numerosi nipoti da lui sempre citati nelle lettere inviate negli anni sono affascinati dallo zio: lui, che con Sara non aveva avuto figli, si preoccupava che i nipoti ricevessero una degna istruzione. La città di Sant’Antonio accoglie Belzoni con curiosità e gli tributa onori e incontri ad alto livello, la nobiltà se lo contende come ospite nei salotti, lui dona due statue della dea Sekamet rinvenute in Egitto, posizionate a ornamento dell’entrata del Palazzo della Ragione. Oggi le statue sono conservate al Museo degli Eremitani.

Giuseppe Jappelli, ingegnere e architetto, diventa suo amico e si ispira alle sue scoperte per ornare la sala egizia del Caffè Pedrocchi, lo storico caffè che ancora oggi è punto di ritrovo di fronte all’entrata principale del Bo, antica università patavina.

Già dopo pochi mesi Giovanni sente che Padova gli va stretta, e la mancanza di denaro lo spinge a ripartire per Londra, dove scrive un poderoso volume di memorie, “Narrative of the operation and Recent Discoveries within the pyramids, temples, tomb and excavations in Egypt and Nubia and of a jorney to the coast of the Red Sea, in search of the ancient Berenice, and another to the oasis of Jupiter Amon”, che chiameremo per brevità “Narrative”. Il libro, illustrato con acquarelli e mappe disegnate dal medico Alessandro Ricci che lo aveva accompagnato nelle spedizioni, ha un immediato successo, assieme all’esposizione di reperti archeologici che Belzoni organizza, assieme a una mostra che a Piccadilly spopola, con tanto di catalogo: usando i calchi presi all’interno della tomba di Seti I nella Valle dei Re, Giovanni riproduce la camera funeraria del Faraone e la gente fa la fila per entrare, pagando un biglietto.

“Narrative” viene editato più volte e tradotto in tedesco, italiano e francese. Finalmente Giovanni guadagna, ma i debiti contratti negli anni lo costringono ancora una volta a partire.

Nel 1823, senza la moglie Sara, parte alla ricerca delle sorgenti del Niger, finanziato dalla Società Africana di Londra: arriva in Marocco e a Fez è ricevuto dal sovrano che gli permette di attraversare il grande deserto, ma Giovanni capisce che arrivare a Timbuktu e al fiume Niger da ovest è impossibile e avventurosamente da Gibilterra sbarca in Nigeria. Qui il tre dicembre, nel porto di Gwato, muore di dissenteria ed è sepolto dal suo accompagnatore Huston.

La firma di Belzoni nelle tombe da lui scoperte nella valle dei Re

La moglie Sara gli sopravvive per molti anni e cerca di mantenere viva la memoria del vulcanico marito nonostante condizioni economiche molto precarie, fatto che dimostra come l’esploratore non si fosse mai arricchito con presunti traffici di reperti antichi.

Giovanni Battista Bolzon in arte Belzoni fu dimenticato quando non criticato per i suoi metodi di scavo considerati troppo rudi e spicci. Molti tentarono di appropriarsi delle sue scoperte, molti lo denigrarono accusandolo, letteratura e cinema si ispirarono e si ispirano a lui: George Lucas studiò il personaggio Belzoni per creare Indiana Jones nei film con la regia di Spielberg, molti fumetti lo ritraggono come protagonista, vari studiosi italiani e stranieri hanno ripercorso la sua vita straordinaria.

Il gruppo “Banda Belzoni” su Facebook conta centinaia di seguaci e celebra “la storia e la leggenda del viaggiatore italiano Giovanni Battista Belzoni”.

Spirito visionario, il padovano naturalizzato inglese lascia con “Narrative” un documento straordinario per spirito di osservazione e sensibilità, adattamento ai costumi delle popolazioni conosciute nel sud del Mediterraneo, attitudine a parlare lingue diverse e a mediare tra le culture, e una maniera di affrontare la vita romanticamente avventurosa, nello spirito dei primi decenni di un diciannovesimo secolo denso di storia.

G. Belzoni, l’Indiana Jones che ispirò Spielberg ultima modifica: 2018-04-30T12:32:52+02:00 da BARBARA MARENGO
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