I giovani del Sessantotto sognavano un mondo in cui poter vivere insieme pacificamente, animati dalla voglia di libertà e dal rifiuto della guerra e delle discriminazioni sociali e culturali. Cinquant’anni dopo, cosa resta di quell’utopia? Il nichilismo, con il suo “niente è vero”, ha tarpato le ali a quel sogno? O quel mondo “impossibile” è ancora possibile?
Ne abbiamo parlato con Franca D’Agostini, filosofa che ha dedicato varie opere al tema della verità. D’Agostini insegna Logica ed Epistemologia delle scienze sociali all’Università degli Studi di Milano ed è autrice, tra l’altro, di Disavventure della verità (2002), Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico (2010), Realismo? Una questione non controversa (2013) e Le ali al pensiero. Introduzione alla logica (2015).

Franca D’Agostini
Professoressa D’Agostini, quali sono i filosofi di allora che vale la pena rileggere per comprendere il mondo odierno?
La storia della filosofia è in buona parte storia di occasioni perdute, grandi idee, grandi soluzioni, che vengono fraintese, trascurate, dimenticate, rubate e trasmesse dalle persone sbagliate. O capite solo a metà e usate nel modo più disastroso.
Questo fenomeno, del tutto normale, è diventato vistoso e socialmente rilevante a partire dal secondo Novecento, con l’attestarsi definitivo della comunicazione di massa. A parte la filosofia analitica, che è sempre stata più scientificamente garantita (anche grazie alla sua astrusità), le tesi della Scuola di Francoforte, dell’ermeneutica, del neo-strutturalismo sono state bruciate rapidamente da una comunicazione che proprio allora, alla fine degli anni Sessanta, incominciava a impazzire.
Il furto, la semplificazione fuorviante, sono diventati requisiti strutturali, inevitabili. Le grandi teorie sono diventate piccole e banali, false, insensate, le versioni distorte hanno avuto grande successo, portando al massacro (in qualche caso all’auto-massacro) idee che dovevano fare ancora molta strada.
Ma, ripeto, è un destino quasi inevitabile. E non toglie l’effetto tipico della vera filosofia: che ancora oggi aprendo un libro di Deleuze, di Adorno, di Gramsci, scopriamo che hanno molte cose da dirci. Dunque per rispondere alla sua domanda, qualunque filosofo attuale o passato dice qualcosa al presente, purché ovviamente sia un vero filosofo, e non un comunicatore globale più interessato a se stesso e alla sua fortuna che a quel che pensa e dice.
A proposito degli autori che influenzarono quegli anni, Herbert Marcuse, con “L’uomo a una dimensione”, introdusse il concetto di “tolleranza repressiva”. Crede che questo concetto possa in un certo senso spiegare l’attuale condizione umana?
Tutti i concetti dialettici (come è appunto “tolleranza repressiva”) spiegano ottimamente la condizione umana. Marcuse è sicuramente un autore da rileggere e ripensare. Ma la sua analisi era forse viziata da una visione “monistica” del potere che è difficilmente adattabile ai processi attuali. Il potere è oggi più che mai multiforme e plurimo. La dialettica è esplosa, come già ipotizzavano Deleuze e Guattari.
Questo vuol dire che i due termini dell’ossimoro si sono staccati: esistono repressioni niente affatto tolleranti (per esempio la coercitività di una parte della cultura islamica), e tolleranze clamorose (delinquenti incoraggiati e promossi); e il gioco dialettico si è pluralizzato: in ogni punto il sì e il no convivono lacerando e paralizzando il pensiero.
Il meccanismo consumistico a cui pensava Marcuse sopravvive ancora, ovviamente, ma è difficile usare oggi la sua condanna come unico paradigma di interpretazione del presente (come fanno ancora molti pensatori radicali, da Noam Chomsky al nostro Diego Fusaro). L’affermatività differenzialista di Deleuze mi sembra abbastanza utile (e si noti che anche “affermazione differenzialista” è un ossimoro, visto che la differenza a qualche titolo include la negazione). È un modo ironico e assecondante (affermativo appunto) di usare le forze critiche, e forse può darci ancora qualche indicazione.
Quel che ci vuole però non è tanto una nuova filosofia, ma davvero un nuovo modo di fare filosofia. A questo progetto stiamo lavorando, oggi anche alcuni filosofi analitici.
Una frase chiave del Sessantotto francese fu “siate realisti, chiedete l’impossibile”. Questa frase incarna un modo di immaginare utopicamente il futuro, di sognare una società ideale. Oggi, invece, sembra ci sia la sensazione diffusa che l’impossibile non sia più realizzabile. Cosa pensa a riguardo?
“Siate realisti, chiedete l’impossibile” mi sembra un programma del tutto onesto. Un onesto realismo ci rivela che la realtà per gli esseri umani è fatta per lo più di possibilità. Nessuno riesce a vedere-capire un fatto, o anche un oggetto, senza circondare il semplice essere-qui con una quantità di poter esserci o non esserci affatto. La caratteristica degli animali umani è precisamente chiedere l’impossibile, per il semplice fatto che come sappiamo bene la realtà è il regno del “non si può escludere che”. Dunque perché non chiedere? La religione ha colto questo ragionevole e semplice principio, inventando la preghiera.
Quanto alle cosiddette utopie politiche, la diagnosi neohegeliana di Ernst Bloch mi sembra funzioni molto bene: le tracce del futuro – utopico o distopico – sono già qui, il gioco sta nel vederle, interpretarle, e scegliere di conseguenza. Come ho detto la realtà attuale è già piena di possibilità. L’altro luogo è qui.
Oggi l’utopia del Sessantotto sembra essere stata sostituita da un odio diffuso, che non si manifesta, come accadeva invece una volta, attraverso la guerra, ma che prende piede sui social network, dove si scatenano gli insulti, in una forma di estremismo verbale che connota la nostra epoca. Cos’è l’odio? Filosoficamente, come spieghiamo questa condizione umana?
L’odio, filosoficamente parlando, è un errore di valutazione. O meglio: è la coloritura emotiva di una verità incompleta, colta solo a metà. Ci sono ragioni per odiare Tizio, ma ci sono anche ragioni per non odiarlo affatto. Amplifico le prime e dimentico le seconde.
L’odio dunque è solo pensiero incompleto, di uomini “a una dimensione” per tornare a Marcuse. Gente che ha incominciato a pensare, ma si è interrotta al punto in cui il pensiero è stato sopraffatto dall’emozione. Il vero veleno nel linguaggio è precisamente l’uso falsidico delle mezze verità.
Ora in un certo senso il linguaggio ci vuole così, dogmatici e unilaterali, dunque potenzialmente velenosi. Per giudicare un delinquente alla fine devo tagliar corto; per valutare la realtà non posso attardarmi a valutare tutti gli infiniti sì e no in agguato in ogni confine. In questo senso non vale lamentarsi, siamo tutti, ufficialmente e inevitabilmente, filosofi interrotti, prigionieri di mezze verità, potenziali avvelenatori della comunicazione. Tutti rischiamo di odiare senza costrutto e senza buone ragioni. La differenza sta solo nel saperlo, e sapersi comportare di conseguenza. Ed è la differenza tra il linguaggio filosofico e altri linguaggi.
C’è di buono che la filosofia si impara. S’impara a usare le mezze verità senza farle diventare odiose menzogne. Ma è un lungo apprendimento, che l’umanità sta lentamente affrontando. E non è detto che ci riesca.
L’utopia del Sessantotto è stata definitivamente sostituita con il nichilismo?
Il nichilismo è la visione tipica dei filosofi interrotti. È la conclusione di un ragionamento le cui premesse sono verità parziali assunte come se fossero tutta la verità. Ma non è solo o principalmente un fenomeno storico-culturale: è anche (Hegel) una fase necessaria ed estremamente utile del percorso di apprendimento della filosofia. Avendo scoperto la dialettica, cioè che panti logo logos isos antikeitai (a ogni tesi si può contrapporre una tesi opposta), i sofisti si fermano a quel punto, al nichilismo del “niente è vero”, senza dialettizzare il loro risultato, e cioè senza accorgersi che sì, il panti logo è vero, ma solo in parte, c’è ancora molta strada da fare.
Se si sposta tutto ciò in politica abbiamo le ideologie, ossia il pensiero unilaterale, strategicamente o inconsapevolmente inchiodato a se stesso, e la critica delle ideologie, il sistematico tentativo di smontare il gioco dogmatico. Nella sua versione non dialettizzata, la critica delle ideologie diventa dogmatismo nichilista o pragmatista (ideologia della fine delle ideologie). Nella sua versione dialettica diventa anche critica di se stessa, finisce per sposare la causa di Nietzsche, e con ciò ritorna al nichilismo.
Però un conto sono le idee, un conto la loro vita storica e sociale. La diagnostica filosofica, a differenza di quella sociologica o storico-ricostruttiva, non prevede vicende ricorsive, né un sopraggiungere e dileguarsi dello spirito. Dunque niente viene “sostituito”: l’utopia del Sessantotto nel suo nucleo intemporale vive ancora. Il progetto politico-pedagogico che conteneva è ancora in vita, benché si sia tentato di seppellirlo affrettatamente.
A cinquant’anni dal Sessantotto, la politica sembra navigare a vista, priva di bussole in grado di dare un orizzonte alla propria azione. La colpa è anche del pensiero che è “debole”, per usare il concetto introdotto da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti? Oggi è ancora possibile un pensiero forte/lungo?
Ottima domanda, sarebbe lungo rispondere in modo dettagliato, ma anzitutto direi che “pensare in grande” (se è questo ciò di cui parla accennando alla possibilità di un pensiero “forte/lungo”) è non soltanto possibile, ma inevitabile. Il problema è piuttosto che non ce ne rendiamo conto, e crediamo che i nostri pensieri siano molto più piccoli di quel che di fatto sono.
Quanto al pensiero debole credo sia utile riparlarne perché come lei forse sa è ciò su cui e con cui ho incominciato a lavorare in filosofia, dunque ho assistito di persona alla sua nascita. Ed è nato anche proprio dall’esigenza di chiarire i nuovi rapporti tra filosofia e politica, in una situazione, quella degli anni di piombo, e con l’annuncio delle future fortune berlusconiane, estremamente difficile per la sinistra: da un lato le pistole, dall’altro una spensieratezza colpevole già carica di corruzione.
La vicenda del pensiero debole è stata esattamente quella che ho descritto in apertura. Una buona idea, che è stata presto tradita. Più precisamente, la formula permetteva di unificare in un solo nucleo concettuale esperienze filosofiche diverse ma convergenti, dalla teoria critica al neo-strutturalismo, dal fallibilismo all’ermeneutica, alla fenomenologia, alla filosofia analitica del linguaggio. L’idea di riscontrare in tutto ciò una vicenda di indebolimento-alleggerimento del pensiero, valutandola non come una “crisi”, ma come una opportunità della ragione, era un’ottima idea, e si ricollegava a una visione (paradossalmente) forte della filosofia, allacciata a una nuova interpretazione della dialettica e della filosofia della differenza.
In breve, come ho cercato di sostenere in vari scritti, c’erano ragioni forti – in buona parte politiche – a favore del pensiero debole. Si trattava appunto di uscire dal nichilismo tragico dei francofortesi e da quello vertiginoso e iper-sperimentale dei francesi usando gli uni e gli altri per affrontare una nuova idea di filosofia al presente.
Ciò che è prevalso del debolismo è però una forma di antirealismo ridicolo, che ha fatto fortuna in America, ed è tornato in Europa con grande clamore sotto forma di postmodernismo. Per poi diventare post-postmodernismo: un anti-antirealismo ancora più ridicolo. Questo pensiero debole non è mai servito a nulla, né alla politica né alla vita. Il nuovo pensiero forte che ha tentato di prenderne il posto è semplicemente un non-pensiero. Direi di più: non è proprio niente. C’è molto lavoro da fare, ma come ho suggerito il problema è che i filosofi non sembrano sapere affatto come farlo.
Lei è autrice di numerose opere sul concetto di verità. Quale pensa che sia oggi il rapporto tra politica e verità? Crede che sia diverso rispetto al Sessantotto?
Da quel che ho detto, forse si può già capire quanto per me conti e in che forma il concetto di verità nella vita e nella storia delle idee. E si può capire che secondo me non c’è differenza sostanziale rispetto al Sessantotto. Crescono le opportunità di diffondere falsità, ma crescono anche le opportunità di smascherarle, dunque finiamo in pari. La “quarta rivoluzione” della società informatizzata, per usare l’espressione di Luciano Floridi, non ha portato grandissimi cambiamenti quanto al concetto di verità: siamo sempre alle prese con la sua fragile e inesorabile presenza nelle nostre vite.
Ma posso precisare in breve alcuni punti che spesso vengono fraintesi.
Anzitutto, partiamo dal presupposto che la politica è (tra le altre cose) l’arte della verità. È una idea che troviamo nel Gorgia platonico, e la ritroviamo (anche se non sembra) in Machiavelli. Nel momento in cui dice che il Principe “deve imparare a mentire”, Machiavelli ci sta dicendo che il governante deve imparare a fare un uso strategicamente utile di quel che sa e crede, a usare le informazioni che possiede, e a trasmetterle.
Naturalmente, se siamo in un regime oligarchico, il politico deve ma anche può mentire, ossia trasmettere quel che crede essere falso come se fosse vero, e può facilmente tacere, ossia non dire affatto quel che sa e crede, visto che controlla le fonti di informazione, almeno le principali. Per questo giustamente Machiavelli includeva la menzogna con ruolo cruciale nella formazione del governante.
Però… se il Principe vive e governa in una situazione in cui le fonti informative sono moltissime, e c’è un vasto intersecarsi di poteri e interessi, e c’è un’informazione insidiosa, plurima, diffusa, le cose cambiano notevolmente. Per ogni sua mezza verità o fragile menzogna (sia pure benevola) ci saranno mille mezzi-veri e mezzi falsi, vere verità e falsità clamorose in antagonismo.
In pratica, se il Principe viene collocato in democrazia, e nel pieno della società informatizzata, allora più che imparare l’arte della menzogna deve imparare l’arte della verità. È quasi lo stesso, ma è più difficile. Saper dire la verità significa anzitutto essere certi di saperla, sapere quando e come dirla o non dirla, e come creare convergenza su di essa (e non su inutili accordi senza contenuto). Saper fronteggiare il fatto che la verità da te conquistata ha molti nemici pronti a distruggerla, e sapere anche quel che ho suggerito in apertura: che le verità di cui disponiamo sono spesso verità incomplete, facilmente trasformabili in dannose falsità.
Tutto ciò è faticoso (nessuna persona dotata di sano intelletto vorrebbe fare il politico oggi). Lo studio necessario è moltissimo. Ma soprattutto, pochi oggi riconoscono che proprio questo è lo studio che ci serve. Per questo le leadership di oggi sono quasi sempre destinate a fallire, e la sfiducia nei confronti dei politici, in linea di principio e a parità di condizioni, è perfettamente giustificata.
Non deve sorprendere che i politici (specie i “giovani”) siano spesso degli anti-filosofi, in ogni senso: sono stati educati a un pragmatismo spensierato, a un uso superficiale delle idee e delle parole, a coltivare alleanze senza contenuto, a privilegiare sistematicamente l’apparenza e l’immagine, a non capire niente della dialettica sociale, e anzi a disprezzare la nozione stessa di dialettica, a cavalcare le differenze come se fossero opposizioni. A rifugiarsi in stupidissime semplificazioni populiste a cui nessun popolo tra breve crederà più. A ritenere, ottusamente, che tutto ciò possa avere ancora un qualche senso e una qualche utilità. Ho pena dei giovani politici educati alla scuola e all’università degli anni Ottanta-Novanta.
Non c’è da scoraggiarsi però. La promessa della filosofia, cioè l’idea che gli esseri umani possano davvero imparare l’arte della verità, è sempre attiva. Ancora oggi esistono molte risorse. Quel che bisognerebbe riuscire ad accettare, una volta per tutte, è che la democrazia, per funzionare, deve essere filosofia al potere. E poiché il potere in democrazia è (idealmente) di tutti, noi tutti, cittadini e governanti, dobbiamo affrettarci a diventare filosofi. Non studiosi di filosofia, ovviamente, ma semplicemente persone che sanno usare le mezze verità senza fare danno a se stessi e agli altri.
Non è detto che ci riusciamo. Non è detto che la democrazia sia il miglior governo possibile. Non è detto che nel tentativo di imparare a essere filosofi non si finisca per inciampare in (vere o presunte) verità ancora più distruttive di quelle di cui già disponiamo. Ma se c’è un senso plausibile della politica è solo legato a questa ipotesi. Bisognerebbe che la scuola, l’università, la politica, la giustizia si facessero carico seriamente di queste esigenze.
La filosofizzazione dell’umanità è incominciata. Lasciare il lavoro a metà significa lasciare il mondo al nichilismo, non come necessaria fase della libertà della ragione, ma come mezza verità diventata assoluta e trionfante menzogna.

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[…] al dubbio metodologico, al nichilismo che decreta la fine di ogni possibile verità. Secondo Franca D’Agostini, filosofa italiana che si è occupata molto del concetto di verità, il nichilismo è ”la visione […]