Venezia un museo? E allora gestiamola con una SpA

Prendiamo atto della sua trasformazione. Ed escogitiamo una soluzione aziendale creativa e rivoluzionaria. Una partecipazione azionaria dei residenti alla città/museo ma non solo: Venezia potrebbe diventare un consorzio a cui parteciperebbero, in quote diverse, tutti i proprietari della città.
PIERALVISE ZORZI
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Il recente pasticciaccio dei tornelli ha posto di nuovo in primissimo piano la domanda se Venezia sia o no un museo. La risposta temiamo sia sì. Lo è da moltissimi anni. Lo è dal fallimento del sistema aziendale che faceva funzionare e produrre la città. Si obietterà che Venezia dall’Ottocento in poi è stata piena di circoli artistici, musicali, letterari, gremiti dai più bei nomi della cultura mondiale e che tuttora ospita tre grandi eventi espositivi, d’arte, architettura e cinema. Tutto vero, ma ciò non ha mai rappresentato, né oggi rappresenta, far vivere e soprattutto governare una città viva e produttiva, ma solo utilizzarla come salotto buono o come locale espositivo. Ci si esalta ricordando che in un certo palazzo ha abitato Byron, in un altro Goethe, in un terzo Wagner, altrove Browning e così via.

Peccato che ci si dimentichi che prima di loro quelle stupende magioni erano di persone che non si limitavano a contemplare come su un palcoscenico “la triste bellezza di Venezia”. Per loro triste non era affatto, perché la facevano marciare a pieno regime. Magistrati, imprenditori, diplomatici, alti funzionari di Stato ma soprattutto tutta gente che, pares inter pares, aveva la responsabilità di far funzionare la Repubblica. Che poi fossero a loro volta coltissimi, e molti di loro ricchissimi, è certo: erano però doti mai fini a se stesse ma sempre applicate al funzionamento dello Stato. Seppellita questa struttura dalla colpevole ignavia di alcuni e dalle tasse napoleoniche, negli anni del primo dopoguerra un gruppo di imprenditori ricchi e colti, il famoso “Gruppo Veneziano” o come lo chiamavano alcuni, la “Trimurti di Venezia” con a capo Vittorio Cini, Mario Volpi e Achille Gaggia, tentò di ridare vitalità economica alla ex Serenissima, creando Marghera.

Non ci stancheremo mai di ripetere che la via dell’inferno è lastricata delle migliori intenzioni: oltre a creare una fonte di immane inquinamento, paradossalmente si diede inizio alla programmazione dell’esodo, con la progettazione della città-giardino in terraferma che avrebbe dovuto fornire agli operai abitazioni salubri e vicine al posto di lavoro, sul modello Crespi a Vaprio D’Adda. Quello che si creò in realtà, confermato da Vittorio Cini nel convegno sul “Problema di Venezia “ del 1962, fu un’altra “trimurti”, il sistema Venezia-Mestre-Marghera, dove se Mestre e Marghera erano forze di produzione e servizi, Venezia insulare era relegata ad isola culturale e dirigenziale.

Dagli anni Sessanta ad oggi Venezia perde lentamente, poi a velocità vertiginosa, sia il suo ruolo dirigenziale che gli abitanti, attirati non solo dalle maggiori comodità del vivere in terraferma ma soprattutto dai facili guadagni provenienti dalla crescente industria del turismo. Insomma, se non si può e non si deve fare di Venezia una città come tutte le altre, si possono trasformare i suoi cittadini in cittadini come tutti gli altri, spostandoli in un’altra città, inclusa nel Comune nel 1926, in pratica un quartiere esteso di residenza dei veneziani. Sparita la classe dirigente che di fatto possedeva Venezia, fallito il tentativo di una nuova classe dirigente, Venezia rimane senza padroni, come centro storico di una realtà spampanata tra diversi comuni di terraferma, non è più urbs e sempre meno civitas, perché perde abitanti a tutto spiano.

Di cittadini interessati alla sua sopravvivenza ce ne sono tanti ma, nell’economia dei 54.000 in calo, sono voci esili. Non raggiungono le orecchie del potere centrale, quello di Roma, che non può e non vuole ascoltare a meno che non si urli così forte da far vacillare le poltrone, cosa ad oggi mai avvenuta. D’altro canto hanno le loro ragioni a fare gli gnorri. Prima di tutto il turismo/invasione è ormai globalizzato in tutte le città d’arte e il governo centrale (se e quando c’è) ragiona con cieca e talvolta bieca imparzialità: perché Venezia sì e Firenze no? O Roma? O dovunque altro arrivino i ferali torpedoni? Poi che noia Venezia, sempre a lamentarsi: prima l’acqua alta, poi le navi, poi i turisti. Uffa. A Palazzo Chigi si ragiona un tanto al chilo.

Quanto ai vari movimenti popolari, nonostante il diffuso indubbio impegno non riescono a portare modifiche determinanti al bieco sistema di sfruttamento turistico regnante. Le ragioni potrebbero essere molteplici. Prima di tutto non hanno soldi, quindi, ci si perdoni la brutalità, contano poco a fronte di un meccanismo che ragiona sul profitto e che muove enormi quantità di danaro in modalità lecite ed illecite.

Le varie manifestazioni pubbliche dei diversi movimenti però hanno certamente raggiunto lo scopo di creare una grande copertura mediatica internazionale ma qui entra in gioco un secondo handicap dei movimenti: la divisione.

I recenti provvedimenti drastici, che parrebbero essere diretta conseguenza del clamore suscitato, hanno così tanto diviso la popolazione da favorire il potere costituito, che si è assunto il merito diretto e quello indiretto di ulteriore sferza mediatica di una soi-disant coraggiosa presa di posizione in realtà ventilata in modo più articolato e progressivo in innumerevoli proposte presentate dai cittadini.

A ciò si aggiunga che le varie proposte offerte gratuitamente al management comunale da vari esponenti dei movimenti veneziani, idee talvolta forti e potenzialmente risolutive, non hanno trovato neppure un riscontro diretto di apprezzamento e collaborazione ma modifiche talvolta addirittura controproducenti quando non il manzoniano “silenzio e cachessìa”, in nome di un autoreferenzialismo dove tutto deve provenire da una sola fonte che poco o per nulla dialoga e riconosce. Non che questo sia un meccanismo nuovo per Venezia: ricordiamo i furori di altri Sindaci e la cortese e trasognata assenza di altri.

Va detto però che le proposte delle varie associazioni popolari sono talvolta ingenue, almeno formalmente. Popolarizzare i palazzi non funziona: è stato fatto con risultati tremendi per i palazzi. La manutenzione costa cifre spaventose, i ricchi proprietari di una volta non esistono più e i mecenati sono pochi (ecco di nuovo il problema soldi). Puntare tutto sull’artigianato locale non funziona: di artigiani ce n’è pochi e senza eredi, perché la nuova generazione, salvo poche eccezioni, preferisce fare altro e comunque guadagna di più ad aprire un bar abitando a Mestre. L’economia del mare, la cantieristica sono in lentissimo recupero dopo una crisi che ha quasi distrutto il settore.

Di cultura ce n’è fin troppa. Sopra a tutto però ci sono dei creative killers: c’è la Legge, c’è l’Italia, c’è l’Europa, altra “trimurti” letale che di Venezia in fondo se ne frega e che, i libri scolastici lo provano, considera la città insulare come una qualsiasi città della penisola. Neppure il territorio veneziano è di Venezia, sparpagliato com’è tra autorità diverse. Lo stesso sindaco, punto nodale di ogni responsabilità e di ogni conseguente lamentela, ha limiti imposti da leggi desuete o generalizzate, che naturalmente non tengono conto del fatto che Venezia insulare non è né fisicamente né moralmente una città come tutte le altre e che qualsiasi tentativo di uniformarla è anacronistico, antistorico e potenzialmente distruttivo.

Allora che fare? Forse bisogna freddamente prendere atto della situazione e dire: va ben, siamo un museo. Lo siamo dal 1797. Cosa succederebbe se si provasse a trasformare il problema in opportunità? Essere un museo serio, come il Louvre, il V&A, il Metropolitan? Lanciamoci nella fantapolitica e soprattutto nella fantaeconomia.

Ecco che improvvisamente limitare le entrate, far pagare un biglietto, selezionare il turismo con una prima rete a maglie strette acquista un significato più forte.

Occorrerebbe comunque trovare una soluzione aziendale creativa e rivoluzionaria. Una partecipazione azionaria dei residenti alla città/museo ma non solo: Venezia potrebbe diventare un consorzio a cui parteciperebbero, in quote diverse, tutti i proprietari della città. Dai padroni dei grandi hotel e ristoranti a quelli dei più piccoli appartamenti. Dai padroni dei bàcari a quelli di quelle poche imprese. Con una fondamentale differenza: ogni quota dei cittadini residenti varrebbe il doppio. Tutti gli azionisti di questa nuova Società Venezia dividerebbero guadagni ed obblighi, vantaggi e doveri, in proporzione alla propria quota azionaria. Tutti intervengono nell’assemblea degli azionisti. Tutti eleggerebbero un Presidente e uno o più amministratori delegati. Non vi sembra familiare questo ragionamento?

Venezia SpA possederebbe tutta la città e la costituirebbe a museo a cielo aperto. Come attività culturale essa avrebbe diritto ad agevolazioni e contributi economici statali ed europei, e presenterebbe ogni anno un bilancio. Si potrebbe quotare in Borsa e attirerebbe investitori stranieri. In più, essendo la città un Museo a cielo aperto all’interno della Città Metropolitana, potrà avere un regolamento tutto suo che permetterà, a questo punto, di limitare gli ingressi e di applicare regole di comportamento più rigide.

Naturalmente è fantapolitica e fantaeconomia, come abbiamo detto, ma mica poi troppo. Al di là della retorica di chi non studia la Storia, la Serenissima fu un’azienda retta da un’assemblea di azionisti, di fatto proprietari della città, che emetteva leggi e creava organismi atti non solo a proteggere la comunità ma anche a renderla produttiva.

Ognuno aveva il suo posto nella Repubblica perché produceva e la proteggeva sotto regole rigide applicate severamente e la tanto declamata apertura era, se guardiamo bene, per chi produceva o poteva portare innovazioni produttive. Che questo sembrasse già allora fantapolitica è noto: nel 1599 il re birmano Nandabayin rise fino a morirne quando venne informato da un mercante italiano che Venezia era uno stato libero senza un re; forse il mercante avrebbe dovuto specificare che un re non c’era, ma un Presidente e un Consiglio di Amministrazione c’erano di sicuro e si chiamavano Doge e Maggior Consiglio.

Pronunciare questi nomi non significa cadere nella nostalgia canaglia dei bei tempi passati, che peraltro erano, come ben sa chi li ha studiati, durissimi ancorché produttivi e, seppure in tempi alterni, gloriosi. Significa apprendere da una formula di governo che in passato era avveniristica ma che oggi è sempre attualissima. In altre parole: Venezia oggi non ha bisogno di produrre altro che non sia una migliore versione di se stessa. Un luogo dove le leggi e le regole vengono rispettate, dove l’arte è rispettata, dove la civile coesistenza tra residenti e visitatori è rispettata. Un luogo del rispetto, che per Venezia è e sarà sempre protezione. Non sembri dunque un passo indietro riconoscere quello che secolo dopo secolo siamo diventati. Forse applicando l’antica nostra innata professionalità e quella tipica spregiudicatezza che ci ha permesso di fare affari perfino coi nemici, ci permetterà di riconoscerci e rinascere.

Venezia un museo? E allora gestiamola con una SpA ultima modifica: 2018-05-13T15:10:06+02:00 da PIERALVISE ZORZI
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