Il silenzio di Riyadh vale mille “sceneggiate” di Ankara. Perché il silenzio saudita, come quello delle petromonarchie del Golfo, segna la sconfitta palestinese. Perché ne sancisce la solitudine. Perché conferma che sul quadrante mediorientale, quella che per lungo tempo era la “madre di tutte le cause”, è stata declassata a questione secondaria, tale da non mettere in discussione le nuove alleanze regionali.
Il mondo s’interroga e si divide sulla sanguinosa giornata di Gaza. Come da vecchio copione, si fa esercizio di fedeltà nei campi in cui ci si è “arruolati”, si registrano i rimpalli di responsabilità, le accuse reciproche, e si dà risalto a iniziative di falsa rottura, come quella che ha portato il presidente turco Erdoğan ha decidere l’espulsione dell’ambasciatore israeliano ad Ankara. False rotture, perché il “Sultano di Ankara” ha abituato ormai la comunità internazionale a repentini cambi di alleanze, dove il nemico di ieri (vedi la Russia) diventa prezioso alleato di oggi (e non solo nella guerra siriana). Erdoğan usa la questione palestinese per rinverdire l’immagine del novello Saladino, pronto a farsi carico delle sofferenze dei “fratelli palestinesi”, salvo poi scaricarli quando si è trattato di convergere con Israele su lucrosi affari militari.
Erdoğan è solo l’ultimo, in ordine di tempo, dei tanti raìs, presidenti-generali, dittatori senza scrupoli che nel corso del tempo hanno utilizzato la “causa palestinese” come arma di propaganda e collante ideologico interno: Saddam Hussein, Hafez Al-Assad, Muammar Gheddafi, Hosni Mubarak e sempre per rimanere nel Paesi delle Piramidi, il presidente (fratello musulmano) deposto, Mohammed Morsi e il suo successore, il rais-generale Abdel Fattah al-Sisi. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Donald Trump riceve Mohamed bin Salman alla Casa Bianca, 20 marzo 2018
Sono i “fratelli-coltelli” arabi e musulmani, pronti ad abbracciare il leader palestinese di turno salvo poi “accoltellarlo”, politicamente, alle spalle. Sarà così anche questa volta. Con una novità sostanziale, però: il silenzio saudita. Un silenzio pesante, strategico. Che vale, per le sue ricadute, mille espulsioni di ambasciatori. Perché significa che le petromonarchie del Golfo, quella saudita, come il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e forsanche il più oscillante Qatar, hanno deciso di applicare alla loro politica l’antico assunto secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. Che tradotto sul quadrante mediorientale, significa che il nemico (Israele) del mio nemico (l’Iran) è diventato se non un amico di certo un partner politico-militare.
Oggi per Riyadh e i suoi alleati in campo sunnita, la preoccupazione maggiore è quella di contrastare l’affermazione della mezzaluna sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut; un’affermazione che viene vissuta come una minaccia mortale da parte saudita, al punto tale da legittimare l’alleanza, già da tempo operativa, tra l’intelligence di Riyadh e quella dello Stato ebraico, e determinare il silenzio sul sangue di Gaza. D’altro canto, il principe ereditario saudita, il giovane e ambizioso Mohammed bin Salman, non ha certo nascosto il suo pensiero sulla dirigenza palestinese. Un pensiero che equivale a una solenne, totale bocciatura. Gli israeliani hanno il “diritto” di avere il proprio Stato nazionale come i palestinesi: ne è convinto il principe ereditario saudita.

Manifestazione in Turchia di solidarietà con i palestinesi di Gaza
In un’intervista alla rivista statunitense The Atlantic e rilasciata durante il suo recente e lungo tour negli Stati Uniti, Mohammed bin Salman ha assicurato di non avere “nessuna obiezione” religiosa sull’esistenza di Israele.
Credo che ogni persona, ovunque sia, abbia il diritto di vivere in una nazione pacifica. Credo che palestinesi e israeliani abbiano il diritto di avere la propria terra,
ha aggiunto il principe nell’intervista che è stata concessa prima delle violenze avvenute nella Striscia di Gaza. Il giovane (32 anni) e ambizioso principe ha poi spiegato che le uniche “preoccupazioni religiose” dei sauditi riguardano il destino della Spianata delle Moschee a Gerusalemme est, annessa da Israele, che è il terzo sito più sacro dell’Islam, e “i diritti dei palestinesi”.
“Il nostro Paese non ha problemi con gli ebrei”, ha osservato il figlio di re Salman.
Come riporta il sito di The Atlantic,
secondo l’ex negoziatore degli Stati Uniti Dennis Ross, i leader arabi moderati hanno parlato della realtà dell’esistenza di Israele, ma il riconoscimento di ogni sorta di “diritto” degli ebrei alla loro terra ancestrale è stata una linea rossa che nessun leader ha mai attraversato fino ad ora.
Sembra che a farlo debba essere proprio bin Salman. Israele incassa e non nasconde la sua soddisfazione. Annota in proposito Yuval Steinitz, ministro dell’energia, tra i più vicini al premier Netanyahu:
Intratteniamo rapporti con molti Paesi arabi e musulmani che, in effetti, sono in parte nascosti e, di solito, siamo la parte che non si vergogna. È l’altra parte a essere interessata a mantenerli riservati. Noi, di solito, non abbiamo alcun problema, ma rispettiamo la volontà dell’altra parte quando si sviluppano i legami, che sia con l’Arabia Saudita o altri Paesi arabi o musulmani e c’è molto di più… ma lo teniamo segreto.

L’attrice franco-libanese Manal Issa esibisce un cartello mentre attraverso il red carpet a Cannes
I punti d’incontro non mancano: la granitica alleanza con Washington e l’avversione all’ Iran, definito dal principe saudita il terzo vertice del “triangolo del male” a cui appartengono la Fratellanza musulmana e il terrorismo. La conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump non ha fatto altro che agevolare l’avvicinamento tra la monarchia saudita e lo Stato ebraico.
Entrambi, sono tornati ad essere gli alleati strategici dell’America in Medio Oriente: non è un caso che il primo viaggio all’ estero da presidente di The Donald abbia avuto come prime due tappe Riyadh, dove sottoscrisse accordi per la vendita di armi per cento miliardi di dollari, e Gerusalemme. All’avvicinamento saudita a Israele, corrisponde la solenne bocciatura decretata da Riyadh nei confronti dell’attuale leadership palestinese, in particolare nei riguardo del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen); critiche che Mbs, così narrato dai media internazionali, avrebbe lo scorso marzo durante un incontro negli Stati Uniti con dirigenti di organizzazioni ebraiche.
A rivelarlo è stata l’emittente israeliana Channel 10 News citando fonti diplomatiche.
Negli ultimi quarant’anni – ha detto bin Salman, secondo la emittente – la leadership palestinese si è fatta sfuggire tutte le occasioni e ha respinto tutte le proposte che le sono state avanzate. È giunto il momento – ha aggiunto – che accettino ora quanto viene loro proposto e acconsentano ad intraprendere negoziati, oppure che tacciano e cessino di lamentarsi.
Secondo Channel10 bin Salman ha aggiunto che la questione palestinese non ha adesso un’alta priorità per il suo Paese. Tuttavia, in assenza di progressi nelle relazioni fra israeliani e palestinesi, non sarà possibile per Israele normalizzare le relazioni col mondo arabo.
Il New York Times ha riportato che l’Arabia Saudita nel novembre 2017 avrebbe offerto alla Palestina due mesi di tempo per accettare una proposta che prevedeva Abu Dis, sobborgo a ridosso di Gerusalemme Est, come capitale di uno Stato palestinese.
La proposta era stata rivolta allo stesso Abu Mazen in occasione di una sua visita nel regno saudita. Sempre secondo il NYT, il piano proposto dal principe ereditario, prevedeva uno Stato separato che comprende Gaza e Cisgiordania e il mantenimento della maggior parte degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, considerati illegali dai palestinesi e dalla comunità internazionale. La proposta non contemplava il diritto di tornare in Israele ai palestinesi della diaspora.
La risposta palestinese è venuta dalla piazza. “Bin Salman, non umilierai i palestinesi” e “Abbasso i Saud”, gli slogan scanditi nel corso delle manifestazioni di protesta a Gaza e in Cisgiordania a seguito della decisione dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.
Sia l’Anp sia Hamas sanno bene che senza i petrodollari del Golfo, ricostruire Gaza, ammesso che Israele lo permetta, resterebbe una illusione. Che il sostegno militare di Teheran ai gruppi radicali palestinesi non aiuta certo a trasformare quella illusione in realtà. Semmai, è vero l’esatto opposto. Per l’ala conservatrice del regime di Teheran, quella che ha nella “Pasdaran holding” la sua ossatura militare-affaristica e nella Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, il punto di riferimento assoluto, la questione palestinese è sempre più legata e dipendente dalla partita che si gioca in Siria e che dopo l’uscita unilaterale degli Usa dall’accordo sul nucleare con Teheran, può estendersi al Libano, all’Iraq, alla stessa Giordania.
A Khamenei, e ancor di più ai suoi comandanti militari, della nascita di uno Stato palestinese interessa poco o niente. Ciò che conta è avere al proprio fianco le milizie palestinesi, da Hamas alla Jihad islamica, nel momento, non così lontano, di una generale chiamata alle armi contro il “nemico sionista”. Ciò vale per Hamas come per Hezbollah libanese, per le milizie sciite irachene, già impiegate sul campo di battaglia siriano, come per gli Houthi yemeniti. Defezioni non sono ammesse.
Di questo è consapevole l’Arabia saudita e da questa convinzione che Mbs è partito per serrare le fila nel campo sunnita e rafforzare il “matrimonio d’interessi” con Israele. Alla Muqata, il quartier generale dell’Anp in Cisgiordania, questo lo sanno bene, al punto di parlare, a microfoni spenti e taccuini chiusi, di “tradimento” da parte saudita. Solo che, volgendo lo sguardo altrove, Abu Mazen non riesce a intravvedere altre sponde, arabe e musulmane, verso cui indirizzarsi, sponsor con cui battere cassa.
Guardando alla storia degli ultimi cinquant’anni, senza paraocchi ideologici e prese di posizione pregiudiziali, è difficile negare gli errori, i limiti, della dirigenza palestinese, da Arafat ad Abu Mazen. Ma molti di quegli errori, delle radicalità praticate come delle improbabili virate moderate, vanno riportate ai “fratelli-coltelli” arabi, con l’Iran in aggiunta, che la “causa palestinese” hanno sacrificato, sempre, sull’altare dei propri interessi e disegni di potenza. La solitudine dell’oggi è figlia di questa storia. Una storia che non prevede un “happy end”.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!