(Mike) Pompeo alla conquista della Persia

L'obiettivo del nuovo segretario di stato americano MIke Pompeo è il cambio di regime a Teheran. E il no all'accordo sul nucleare è solo il primo passo.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Molto più che l’esecutore sul fronte iraniano dell’America first. Mike Pompeo, l’ex direttore della Cia promosso a segretario di stato da Donald Trump, ha messo tutto il suo peso politico, e non solo, sulle due scelte strategiche operate da The Donald in Medio Oriente: l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con Teheran, e lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.

Pompeo ha studiato attentamente tutte le mosse del presidente russo Vladimir Putin in Medio Oriente, giungendo ad una conclusione: il leader del Cremlino vince perché sceglie. Sceglie chi sostenere, Bashar al-Assad in Siria ad esempio, e poi tira avanti su questa linea, senza tentennamenti. È lo schema che Pompeo ha voluto riportare nel campo americano. E allora la scelta degli alleati sul quadrante mediorientale: Israele e Arabia Saudita. E il nemico contro cui consolidare le alleanze: l’Iran.

L’obiettivo degli Stati Uniti è “impedire” che Teheran arrivi ad avere armi nucleari. Per questo, spiega il segretario di stato Usa,

[…] applicheremo una pressione con sanzioni finanziarie senza precedenti. Le sanzioni saranno dolorose se il regime non cambierà il proprio percorso: saranno le più dure della storia, è solo l’inizio. L’Iran sarà costretto a fare una scelta.

Quando le sanzioni saranno implementate, l’Iran “lotterà per tenere in vita la propria economia”. La strategia americana prevede “di evitare, con la collaborazione dei nostri alleati nella regione, l’aggressione iraniana”. Gli Stati Uniti, poi, “individueranno gli alleati dell’Iran nel mondo e li annienteranno”. Il presidente Trump è pronto a negoziare un nuovo accordo, ma l’obiettivo è difendere il popolo americano. Non ripeteremo gli errori del passato”, prosegue Pompeo, che snocciola poi una lunga lista di requisiti – articolata in una dozzina di punti – che l’Iran sarà chiamato a rispettare per riportare le relazioni internazionali con gli Usa su un altro binario: “Sappiamo che la lista è lunga, ma non è colpa nostra. È dell’Iran”. A Teheran, afferma il segretario di stato, “si chiede di rispettare le norme globali e di non minacciare il mondo con le sue attività nucleari”.

Il giuramento di Mike Pompeo

Secondo Pompeo, l’atteggiamento tenuto da Donald Trump nei confronti della Corea del Nord testimonia “l’impegno dell’amministrazione a risolvere le questioni attraverso la diplomazia”. “L’accordo del 2015ha messo il mondo in pericolo per le sue lacune” scandisce il segretario di stato americano, parlando dell’accordo nucleare da cui gli Stati Uniti sono usciti. Afferma Pompeo: 

Il meccanismo per controllare e verificare era semplicemente troppo debole. L’Iran ha mentito per anni sul suo programma nucleare. Anche oggi, il regime continua a mentire. Ricordate: l’Iran ha portato avanti la propria marcia in Medio Oriente mentre l’accordo era in vigore.

E il numero uno della diplomazia a stelle e strisce in un altro passaggio aggiunge che “durante l’accordo, l’Iran ha continuato a trattenere ostaggi americani”. Pompeo inoltre sottolinea che, negli anni in cui l’intesa era in vigore l’Iran ha continuato ad essere il principale sponsor del terrorismo e a Teheran sono riconducibili “operazioni con omicidi sotto copertura nel cuore dell’Europa”. “È per tutto questo – dice rivolgendosi al popolo iraniano – che volete sia ricordato il vostro paese?”. Ed è proprio quest’ultimo passaggio che dà conto della filosofia interventista del segretario di stato Usa: l’obiettivo vero, finale è il cambio di regime a Teheran. Le sanzioni ne sono lo strumento. Il debutto di Mike Pompeo è col botto. Il suo discorso programmatico delinea priorità e alleanze degli Usa in politica estera.

Alleanze variabili, depotenziamento degli organismi sovranazionali. Il numero uno della diplomazia americana ha stilato una lista di dodici richieste a Teheran, tra cui il ritiro delle proprie truppe dalla Siria. Il Pompeo-pensiero, rafforza e attualizza le riflessioni di Pierre Haski, analista di punta del settimanale francese Obs, in un articolo su Internazionale:

Di fatto, una parte degli Stati Uniti non ha mai rinunciato a premere per un cambiamento di regime in Iran, in particolare nel corpo dei marines, che vive nella memoria dell’attentato di Beirut, e tra le fila dei neoconservatori, che hanno oggi il vento in poppa. 

Paradossalmente questi si rivelano essere, di fatto, gli alleati del clan dei falchi vicini alla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, e dei comandanti del corpo dei Guardiani della rivoluzione e dei servizi di sicurezza della Repubblica islamica, che non hanno mai veramente digerito i negoziati per l’accordo nucleare con il “grande Satana” da parte del governo moderato guidato dal presidente Hassan Rohani.

I falchi di Teheran, come quelli di Washington, non avevano niente da guadagnare dalla distensione auspicata tanto da Barack Obama quanto da Hassan Rohani. La scommessa dei due uomini si fondava sull’idea che il miglioramento della situazione economica cui aspira la popolazione iraniana, in particolare le classi medie urbane, le meno soggette all’influenza religiosa, avrebbe portano a una definitiva distensione tra i due paesi”. Ma la distensione, almeno in Medio Oriente, non è una priorità per Pompeo.

O meglio, la distensione, nell’ottica dell’America first, per essere contemplata deve venire a seguito di un ridimensionamento sostanziale della presenza iraniana in Medio Oriente; ridimensionamento che, nello schema trumpiano, è un passaggio ma non la meta. Perché la “meta” resta l’abbattimento del regime degli ayatollah. Ed è proprio la meta a dividere Stati Uniti ed Europa.

Mike Pompeo

Gli affari c’entrano, eccome, e aver deciso di uscire unilateralmente da un accordo fortemente voluto e oggi difeso dall’Europa, è anche uno schiaffo, pesante, inferto su questo piano da The Donald ai leader del Vecchio Continente. Ma gli affari non spiegano tutto. Perché alla base dell’accordo del 2005, c’era la convinzione, da parte europea e dell’allora presidente Usa Barack Obama, che “sdoganare” non il regime in toto, ma la sua componente riformatrice che aveva e ha in Rohani il suo terminale, poteva fare dell’Iran un soggetto stabilizzatore dei conflitti che segnano il Grande Medio Oriente. Un interlocutore da incalzare, non un nemico da abbattere.

Rohani, dal canto suo, aveva investito su quell’accordo, per vedersi riconosciuto questo ruolo di stabilizzatore e, cosa non meno importante, fare di quell’accordo il volano per l’ingresso di nuovi capitali occidentali, decisivi per dare corso a quelle promesse di riforme sociali ed economiche che hanno convinto i giovani, la classe media urbana, a sostenerlo contro i conservatori guidati dalla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.

Scegliendo la linea durissima, Pompeo sa bene chi ne risulterà avvantaggiato nello scontro interno al regime iraniano: Ali Khamenei. Ma per raggiungere la meta finale, l’America di Trump ha bisogno che il volto dell’Iran sia il più impresentabile e minaccioso, per dimostrare che quel regime è irriformabile, come lo era, ai tempi di Ronald Reagan l’Urss di Michail Gorbaciov.

Ora anche i riformatori a Teheran hanno scelto con chi provare a salvare non un accordo, quello sul nucleare, ma la visione che lo sosteneva. I riformatori hanno scelto l’Europa. E per questo si attendono molto, forse troppo.

Il sostegno politico dell’Unione europea all’accordo sul nucleare tra l’Iran e le potenze mondiali non è sufficiente.

così il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, il più stretto collaboratore di Rohani, nel corso di un incontro, avvenuto nei giorni scorsi, con il commissario Ue all’energia Miguel Arias Canete.

L’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare ha accresciuto le aspettative nei confronti dell’Unione europea per la salvaguardia dell’accordo

ha aggiunto Zarif, sottolineando che l’Ue dovrebbe fare più passi concreti e aumentare gli investimenti nella cooperazione economica con l’Iran. Canete, da parte sua, ha affermato che il ritiro americano ha creato problemi ai paesi europei, ma il messaggio dell’Ue è di continuare la cooperazione con l’Iran per mantenere e proteggere l’accordo.

Mike Pompeo e Boris Johnson, il ministro degli esteri britannico

Ma quel messaggio va sostanziato. Non solo nello scontro sulle sanzioni, ma anche rispetto agli altri dossier caldi mediorientali: dal conflitto israelo-palestinese ad una soluzione politica della guerra siriana da condividere con la Russia e, per l’appunto, con l’Iran. Senza questa visione d’insieme la stessa partita sul nucleare è persa in partenza. Non si tratta di contrapporre all’America first, una sorta di Europa first. Sarebbe un esercizio velleitario, destinato a una sicura sconfitta. Ciò che si chiede all’Europa è di reggere la sfida americana, in una ottica inclusiva, dentro la quale ridefinire un nuovo patto d’azione con l’Iran di Rohani, dimostrando che la diplomazia degli affari e quella dei diritti, umani, sociali, politici, possono andare a braccetto.

Una sfida epocale, che vale la pena affrontare, con la consapevolezza che l’antidoto all’America first declinata da Pompeo sul quadrante mediorientale, non può essere la difesa dello status quo.

(Mike) Pompeo alla conquista della Persia ultima modifica: 2018-05-22T17:25:53+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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