In un paese senza leader succede che “un perfetto sconosciuto entra a Palazzo Chigi”, come si legge sulla prima pagina del Corriere della sera il giorno dopo il conferimento dell’incarico a Giuseppe Conte. Un perfetto sconosciuto: vero. Ma proprio per questo destinato a sorprendere? A sorprendere innanzitutto i suoi sponsor politici. Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Convinti di essere loro i veri capi dell’esecutivo, con il professor Conte alle loro dipendenze. Una marionetta, un Arlecchino servo di due padroni, un re Travicello, un esecutore, tanto per citare le definizioni appioppate al professore dacché è balzato agli onori della cronaca.
È chiaro che in una simile prospettiva – un presidente del consiglio telecomandato – il governo avrebbe vita breve. Presto, inevitabilmente, diventerebbe un condominio avvelenato, con il suo amministratore messo alla porta: il capro espiatorio. E se invece Conte dovesse rivelarsi autonomo? E se invece vorrà fare davvero il presidente del consiglio?
Insomma, se lo scenario che si può ipotizzare sulla base del complicato itinerario che ha portato alla designazione di Conte è quello di un presidente al guinzaglio, ben diverso – e dunque sorprendente – potrebbe essere lo sviluppo reale degli eventi che seguiranno all’insediamento e al giuramento di un governo guidato dal docente di Firenze (ammesso che superi gli scogli della formazione della sua squadra, e già nel far questo si vedrà se e quanto voglia e sia in grado di far pesare la leadership che gli deriva dall’importanza dell’incarico avuto da Mattarella).
Questo potrebbe essere il vero film che ci aspetta, non il copione scritto da Di Maio e Salvini. Sorprendente, appunto. Ma, a ben pensarci, non più di tanto. Basta leggere “Un paese senza leader. Storie, protagonisti e retroscena di una classe politica in crisi” (Longanesi, 16.90 euro), un istruttivo e godibile libro di Luciano Fontana. E andare alle pagine che descrivono il caso di un altro professore, messo alla guida del governo con l’idea che potesse essere il “volto” senza testa al servizio dei capi dei partiti che con i loro voti lo sostenevano in parlamento.
Può essere un po’ brutale, detta così, ma l’autonomia di Romano Prodi e la sua grande popolarità e credibilità personale, basate su un insieme di fattori che lo distanziavano e lo distanziano dalle caratteristiche tipiche del politico di professione, non erano state messe in conto da D’Alema, che l’aveva “nominato” alla guida del governo nel 1996, e che furono la ragione che spinsero D’Alema e i suoi a mollarlo (e poi a ri-mollarlo più volte).
Certo, il professore di Bologna non era il signor nessuno che è il suo collega di Firenze, però anch’egli assolveva allo stesso compito assegnato oggi al suo omologo: mettere la faccia a un governo, compito che nessuno degli “azionisti” può, e allora poteva, svolgere.
Già, perché allora un comunista, per quanto ex o post, non avrebbe fatto presa sull’elettorato centrista, decisivo per vincere, mentre un cattolico di centro-sinistra sarebbe stato ben più adatto all’uopo (Prodi era un tecnico, ma anche un cattolico democratico). D’Alema non ce l’avrebbe fatta a farsi eleggere come leader della coalizione né avrebbe potuto tenere insieme una coalizione variegata come era il primo Ulivo (al governo ci arrivò senza la via elettorale, il suo rammarico, come ricorda Fontana, e non finì bene). Oggi né Di Maio né Salvini possono presiedere il governo, che pur essendo pienamente politico è inficiato fin dal suo sorgere da veti incrociati, ed ecco la carta del professore.
I vari passaggi conflittuali e critici che hanno visto protagonista Prodi sono descritti benissimo da Fontana ed è assai interessante leggerli oggi. La narrazione è avvincente, anche perché l’autore – come peraltro in tutto il libro – “sfrutta” appropriatamente il raro privilegio di avere e aver avuto accesso diretto ai protagonisti che sfilano nelle sue pagine, quelli di ieri, quelli di oggi.
Vediamo se e come si ripeterà la saga di un presidente del consiglio “tecnico” che la forza delle cose, unita all’ambizione, unita alla specificità del ruolo di comando, spinge a conquistare autonomia rispetto ai partiti della coalizione. Ci sarà un D’Alema, e chi sarà, che renderà inevitabile il passaggio a un governo pienamente “politico”?
Andare oltre nelle ipotesi ci porterebbe nella fantapolitica. D’altra parte, la situazione attuale ha caratteri del tutto inediti rispetto al passato, e anche per questo i raffronti vanno fatti con la massima sobrietà per spiegare la politica d’oggi. Una politica ridotta a una specie di terra di nessuno se l’osserviamo con i parametri del pensiero novecentesco.
Perché e come si sia arrivati a questo punto, lo spiega bene il direttore del Corriere della Sera, collegando efficacemente tanti fatti noti e non noti che costruiscono la storia di quest’ultimo ventennio.
Un paese senza leader, o non sarebbe meglio dire senza leadership? Senza l’ambizione reale a trovare una guida?
Se siamo a questo punto è per via della crisi delle idee novecentesche, che accomuna il caso Italia a quanto avviene in tutto l’Occidente. Ma una responsabilità, l’hanno anche tutti coloro che, avendone il potere, hanno giocato più d’interdizione che in modo costruttivo tutte le volte che una qualche forma di leadership trainante è andata costituendosi.
Abbiamo detto di Prodi. Ma ci sono anche Veltroni e Renzi, per restare al centrosinistra. Un capitolo del libro s’intitola “Centrosinistra, il fuoco amico”. L’autore non fa delle connessioni esplicite tra le diverse vicende, ma in ognuna a un certo punto appare D’Alema, ogni volta con lo stesso “schema” di gioco, basato essenzialmente sulla centralità del partito e del suo vertice (“La politica fuori dei partiti non esiste e l’Ulivo per ora non è un partito”, dice agli esterrefatti partecipanti al convegno di Gargonza nel pieno della stagione ulivista) e sulla fissazione contro l’emergere di una guida forte, definita per ciò stesso solitaria (rivolto a Veltroni nel giorno della fondazione del Pd: “La fiducia dei cittadini verso di lui è importante, però nello stesso tempo bisogna avere fiducia della classe dirigente, perché governare non è un’impresa solitaria”. Lo stesso mantra che inseguirà Matteo Renzi, l’uomo solo al comando).
D’Alema è, dal nostro punto di vista, il personaggio simbolo di una mentalità politica, largamente diffusa e condivisa, refrattaria alla cessione da parte dei partiti di pezzi consistenti della propria sovranità a personaggi leader e alla logica della personalizzazione della politica. Avere contrastato quel processo non ha prodotto grandi risultati, l’ultimo dei quali è la penosa performance di Liberi e Uguali.
Il fatto è che questa mentalità ha trovato spesso sponda in parti importanti dei media mainstream, che si sono trovati in sintonia con questa visione “conservatrice”, avversando di volta in volta tutti i personaggi politici che hanno proposto un registro diverso, sia a destra sia a sinistra, outsider, prima Craxi, poi Berlusconi, infine Renzi.
Una diga che ha retto, certo, ma per poi cedere rovinosamente di fronte all’irruzione dei veri rottamatori del sistema. Che oggi hanno in mano le chiavi del palazzo.

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