La dolce vita del “Posta” di Cortina

Il “bar” dell'albergo simbolo del centro dolomitico ha richiamato numerosi villeggianti illustri, attirati dai cocktail del barman Antonio Di Franco. Che a settantasette anni compiuti continua a star dietro al bancone di legno. 
CLAUDIO MADRICARDO
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Senza Antonio semplicemente non esiste il Posta, afferma con nessun tentennamento Gherardo Manaigo, l’ultimo rampollo di quella famiglia che sulle rovine della chiesa di Santa Caterina, ceduta dal Comune di Cortina nel 1811 all’avo Silvestro, aveva avviato alloggio, stalla e osteria. Adibendo anche l’attuale bar negli anni trenta dell’Ottocento ad ufficio postale dove facevano sosta le diligenze, che via Dobbiaco, portavano la posta proveniente da Lienz.

Nel corso dei secoli, l’espressione non è per nulla esagerata in questo caso, con l’aumentare dell’importanza dell’allora paesino della conca ampezzana, l’originaria locanda ha saputo tenere il passo con i tempi, trasformandosi in albergo e aggiungendo piani all’edificio.

E in breve diventando, passati i periodi delle due guerre, richiamo sempre più forte per villeggianti illustri, tra i quali Ernest Hemingway, che all’Hotel de la Poste alloggiò al primo piano, durante le sue numerose soste in Italia, alternando i suoi soggiorni tra Venezia e Cortina.

Pure lui assiduo frequentatore della vecchia osteria che era divenuta col tempo il “Bar” del Posta. Il cui grande successo è legato a Renato Haussmann, che vi lavorò come barman, lasciando il posto in seguito al più promettente dei suoi allievi, Antonio Di Franco, che a settantasette anni compiuti continua a star dietro al bancone di legno a preparare i suoi cocktail. 

Gli anni d’oro della “dolce vita” ampezzana che richiamava a Cortina e al “Posta” in particolare, Re Hussein di Giordania e i reali di Svezia. Attori, scrittori e politici di ogni parte del mondo. Attratti dalla meraviglia delle Dolomiti e dal paesino, divenuto nel frattempo lentamente cittadina, che le Olimpiadi invernali del ’56 avevano consacrato stazione turistica internazionale.

“A volte mi succede di definirlo semplicemente il tempio”, ricorda Gherardo, al quale ora spetta il compito di portare avanti l’antica tradizione di famiglia, parlando del bar.

Quello lo considero il luogo dove Antonio officia, e celebra il rito coadiuvato dai suoi fidi camerieri. Ogni tanto passo e mi fermo a parlare con lui di tutto. Ci ho messo tre anni a convincerlo a preparare uno spritz. Per farmi capire quanto considerasse fuori luogo quella mia richiesta, sorridendo mi ha ricordato che mio padre ha offerto champagne a tutti i clienti il giorno in cui sono venuto al mondo. Che vuoi mai che gli possa rispondere ad Antonio?

conclude Gherardo ridendo.

“Il mio paese è la patria dei cuochi” esordisce, quasi volendo giustificarsi, Antonio Di Franco, abruzzese di nascita, della provincia di Chieti, nato nel paesino di Villa Santa Maria.

Così, ho pensato di fare il barman, e dopo la scuola alberghiera, il primo posto dove ho lavorato è stato all’Hotel Excelsior del Lido di Venezia nel ’56.

Seduto a un tavolo nell’ex chiesa restaurata e riadattata di Santa Chiara a Murano, inghiottita tra fornaci ancora attive, showroom del vetro e rovine di capannoni che testimoniano un passato splendore che difficilmente potrà mai tornare, e visibile solo a chi passa in barca sul canale per Burano, Antonio si racconta. Con misura e discrezione.

A Murano per l’omaggio alla moglie Filomena, mancata dopo malattia, per ricordare la quale ha raccolto un nutrito numero di opere di artisti e poeti che l’hanno conosciuta, tutte in un prezioso volumetto che fa da guida alla mostra che nell’ex chiesa si può visitare, Antonio parla con estremo garbo, senza mai eccedere.

Racconta l’essenziale, con il volto abbronzato e la sobria eleganza del completo azzurro, come se tutto quanto lo riguarda, tutto quanto potrebbe ricordare, non avesse alcun peso e nessuna importanza. Su cui, infine, varrebbe la pena, dipendesse da lui, del tutto sorvolare.

Si racconta velando le emozioni. E non dà enfasi ai fatti. Nello sforzo palese di rendere tutto, del tutto normale. In quella che in lui è di certo la lunga pratica della discrezione, ingrediente altrettanto importante di champagne, succhi e liquori che gli hanno valso il successo nella sua professione. 

Quando ho cominciato, l’Excelsior era uno dei posti maggiormente di élite in Europa, sia per la clientela, sia per l’albergo. Arrivava gente da tutto il mondo. Durante le Mostre del Cinema venivano dive come Elizabeth Taylor, vedette internazionali e uomini politici. Ci sono rimasto per sette estati. D’inverno facevo le crociere nei Caraibi e dopo un po’ ho passato diciotto mesi a New York per imparare l’inglese. Mi ricordo che stavo ancora al Lido verso la chiusura della Mostra quando mi ha chiamato Gastone che era allora barman all’Hotel Danieli, dicendomi di andare al Posta di Cortina. Allora dovevo sposarmi e ci sono andato con l’idea di provare per una decina di giorni, non di più. E ci ho passato cinquantaquattro anni. Mi chiamano anche se sono in pensione.

A lasciare, Antonio ci aveva anche provato, ma la reazione dei clienti è stata tale che la proprietà del Posta alla fine l’ha convinto a tornare. Sorridendo ricorda come spesso lo chiamano anche clienti importanti. “Antonio ci sei? – chiama il figlio di Gianni Letta – Se ci sei, dovrei fare un pranzo per una ventina di persone.” E via così.

“Continuo ad andarci perché mi diverto, non certo per i soldi. Lì saluto tutti. È una vita no? Non è che la puoi buttar via”, racconta Antonio. Che conserva un pacco d’interviste fattegli da tanti quotidiani e riviste.

 

Rifiuta di definirsi un personaggio, ma ammette di essere conosciuto da tutti.

Al Posta, ho visto persone che ancora dovevano nascere. Che seguito sono cresciute, sposate e che magari hanno divorziato. Per poi risposarsi. Ho conosciuto i nipoti e i pronipoti. Li conosco tutti. Una volta ho chiesto a un cliente come stava la signora. Quale? Mi ha detto. Da quel momento lì in poi non chiedo più niente.

A Cortina dal ’64 non ha visto le Olimpiadi, e ha mancato di conoscere Hemingway. Dice “che il paese è cambiato com’è successo dappertutto, anche se Cortina è mutata in modo particolare. I prezzi delle case sono troppo alti. E alla fine è come una nobildonna alla quale è rimasto solo il nome. Nei tempi passati, racconta, bastavano cinquanta persone per guadagnare quello che ora ricavi lavorando con cinquecento.”

Ricorda un cliente di Venezia, un conte.

Al bar si sedeva dandomi le spalle, e mi chiedeva un drink, poi un altro, e un altro ancora. Indovinava tutti i tipi di whiskey. Poi un giorno che era in ristorante che mangiava mi chiama la cameriera, dicendomi “Antonio, Antonio vieni a vedere che succede”. Corro ed era morto col cucchiaio in bocca mentre stava seduto per pranzo.

Antonio li ricorda tutti i suoi clienti. Da Liz Taylor a Richard Burton, a Henry Fonda, e a tantissimi altri. 

Tutti venivano al bar del Posta. Per non parlare degli italiani e di tutti i presidenti della repubblica con l’eccezione di Scalfaro. Tra i giornalisti, cliente affezionatissimo è Eugenio Scalfari. Se viene in paese, mangia sempre da me. Bruno Visentini si alternava al Posta per cena e al Caminetto per pranzo, se era bel tempo. Poteva stare anche dieci anni a Cortina non avrebbe mai cambiato la sua abitudine. E quando mangiava con la famiglia, imponeva a tutti lo stesso menù. Ce ne sono ben pochi di quei personaggi lì.

 

Anche Indro Montanelli, che a Cortina pure votava essendo residente, frequentava il bar. “Persona cortesissima, lo ricorda Antonio. Sempre col marchese Antinori, si mettevano davanti al bar e si facevano delle belle passeggiate. Non è mai venuto invece Silvio Berlusconi, che pare non abbia trovato la casa che cercava.”

Chiedo se, in più di sessanta anni di carriera, ha notato se esiste una corrispondenza tra un particolare cocktail e il carattere di una persona.

Sì, risponde Antonio, in base all’idea che mi faccio del cliente posso creare un cocktail più o meno strong. Devo dire che ora i cocktail forti non vanno più, e per questo li abbino con della frutta, e in questa gamma abbiamo creato il Puccini, che è champagne e mandarino. Prima si bevevano grappe e cognac. Roba che andava appena dopo la guerra. Ora non ne vendi nemmeno una. Si ubriacano con altre cose, soprattutto i giovani, che bevono male.

E lo spritz? “Non volevo nemmeno sentirlo nominare e per quarantacinque anni è stato così. Poi è successo che è mancata mia moglie e ho detto che lasciavo il bar. E quando sono tornato, me lo sono ritrovato nella carta. È un cocktail che un po’ intristisce, un po’ per gli ingredienti, un po’ per il costo basso… ma se viene fatto bene, si fa bere, Che dovevo fare? Ci aggiorniamo”.

Antonio nella sua carriera ha stappato migliaia di bottiglie di champagne.

Ai bei tempi, racconta, si stappavano ottanta novanta bottiglie di champagne al giorno, e anche di più. Ora se va bene ne stappi una decina e in genere pure meno. E non solo perché non ci sono più i soldi di una volta, ma perché è cambiato proprio il modo di bere. E’ uscito questo spritz, e nei posti caldi, non da noi, si beve birra.

Dai primi d’agosto sarà nuovamente al bar del Posta, in piazza Roma, a due passi dalla chiesa. Dalle dieci del mattino, fino all’una o alle due di notte. Con una piccola sosta di un paio d’ore il pomeriggio. “Secondo il lavoro che c’è”, precisa.

E la voglia di smettere? “Tra un po’ arriva il proprietario del Posta e gli voglio dire proprio questo”. Lo posso scrivere? “Lasci perdere. Se vuol scrivere qualcosa, dica che sono tanti anni che Antonio vorrebbe smettere, e forse potrebbe essere la volta buona.” Vedremo.

La dolce vita del “Posta” di Cortina ultima modifica: 2018-05-25T18:37:38+02:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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