Eravamo disposte anche ad andare in pari, ma quando abbiamo iniziato a perderci, le cose sono cambiate inevitabilmente. Sarebbe stato un suicidio continuare.
Ha chiuso dunque così la libreria indipendente per bambini e ragazzi Marco Polo Kids, ma lo ha fatto con lo stile di Elisabetta, Chiara, Jen, Sara e Naomi, le libraie che le hanno dato vita in questi due anni: con una festa, per salutare e ringraziare i loro piccoli e grandi clienti, non senza un velo di tristezza, ma anche forti dei risultati ottenuti.
Sì perché le attività proposte sono state davvero tante: letture ad alta voce gratuite per bambini, letture in lingua (inglese, tedesco e perfino giapponese!), laboratori, incontri per neo genitori e presentazione di libri. Autori come Alberto Toso Fei, Igiaba Scego, Cristina Bellemo, Bruno Tognolini, Michelangelo Rossato, Emanuela de Rose e Corrado Premuda sono tutti passati per la Marco Polo Kids a parlare dei loro albi dedicati ai più piccoli.
Ma è stata poi anche un punto di ritrovo per associazioni, nonché di promozione di festival e iniziative rivolte alla cittadinanza, incentrate soprattutto sulla promozione della lettura. Perché, per Elisabetta, Chiara, Jen, Sara e Naomi,
I libri sono chiavi, aprono nuove porte. I libri sono finestre, fanno entrare la luce. I libri sono ponti, ci permettono di arrivare in mondi sconosciuti.
E i bambini, noi lo crediamo, sono nati per leggere. Perché leggere non è solo leggere.
Tutto questo è successo una decina di giorni fa a Venezia, in una zona particolare della città: la libreria si trova infatti dietro alla Chiesa di San Giovanni Grisostomo, a pochi passi da Rialto. Un punto focale per chi proviene un po’ da tutti i Sestieri – pensano inizialmente le libraie –, centralissimo. Ecco, appunto: forse troppo centrale. Troppo vicino al fiume di persone che quotidianamente, avanti e indietro, percorre la direttrice Rialto – Stazione, via Strada Nuova, rendendolo, di fatto, sempre più difficile da fruire per… “eccesso di ingombro umano”.
Un fiume di persone, peraltro, che sfiora il negozietto, ma non ci passa davanti e che comunque appare assolutamente disinteressato all’offerta di albi d’autore per bambini e ragazzi: è qui per transumare verso Rialto e San Marco ed è disposto a spendere qualche soldo per un souvenir o per qualcosa da mangiare, ma decisamente non per dei libri. Sì, certo sono belli, ma pesanti da riportare indietro e poi si trovano anche altrove, non è un genere da turismo di massa.
C’è, in realtà, una sezione plurilingue su Venezia per i più piccoli, alla Marco Polo Kids, e qualche visitatore più attento arriva a scorgerli e ad acquistarli: ma si tratta solo dei pochi che sanno che a due passi da lì ci sono i luoghi dove è nato il più famoso dei viaggiatori veneziani, oppure il Teatro Malibran, oppure ancora che, attraversando qualche altro ponte, si può arrivare facilmente a Santa Maria Formosa.
Un fiume di persone, comunque, che non è servito nemmeno a salvare, poco più in là dalla libreria, lo storico grande magazzino Coin, per anni il più grande in centro storico, dotato perfino (!) di scale mobili. Anche in quel caso, malgrado le vendite, l’aumento dell’affitto (3-3,5 milioni di euro all’anno, secondo quanto riportato dai quotidiani locali) ha reso insostenibile i costi di gestione.
Insomma, si tratta di due realtà su scala nettamente diversa, che condividono però la stessa sorte.
Riflettere sui perché non è per niente facile e va oltre all’orizzonte ristretto di Venezia. La città lagunare vive infatti dinamiche che colpiscono anche altri centri storici, sia in Italia, che in Europa, che in altre parti del mondo. Si tratta, fondamentalmente, delle conseguenze, su realtà locali, del funzionamento dell’economia di modello occidentale. Ma non è scontato dare un giudizio netto, univoco: dire che ha ragione chi è costretto a chiudere, perché la cessazione di un’attività porta a perdita di posti di lavoro e ad un impoverimento della varietà commerciale, ha infatti la stessa dignità che sostenere il rischio d’impresa e il diritto, per un privato, di ricavare il massimo dalle proprietà che possiede.
Dove sta, allora, il giusto mezzo? E soprattutto: si può ancora trovare? Beh, sarebbe importante, perché ragionare per contrapposizioni non porta mai a soluzioni valide. Invocare un qualche tipo di regolamentazione super partes parrebbe essere allora l’unica via ragionevole ed è in questa direzione che tentano di muoversi ultimamente gli enti pubblici, davanti ad eccessi sempre più evidenti. La sensazione, però, è che l’intervento dovrebbe essere più deciso e rapido, se si vuole davvero permettere che coesistano tra attività commerciali “classiche” e realtà che producono e diffondono anche beni immateriali, non quantificabili o rendicontabili in termini monetari. Politiche fiscali agevolate per chi dà in locazione fondi di negozio a prezzi sostenibili, o spazi di proprietà pubblica messi a disposizione a prezzi calmierati sono solo un paio di esempi di modelli che potrebbero essere seguiti. L’importante sarebbe riconoscere il “valore” non commerciale delle attività che si propongono anche come luoghi di cultura e aggregazione, in un’ottica di investimento per i cittadini: queste infatti creano occasioni di condivisione e di crescita individuale e collettiva, favorendo la coesione e contribuendo quindi a stemperare le crescenti conflittualità che sempre più contraddistinguono le società odierne.
“Tu sei libero di guadagnare, io sono libero di dare valore anche ad altro”: si tratta di dare un’interpretazione diversa al concetto di “libero” mercato.

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