Il dato è emerso lunedì scorso ad un convegno ospitato nella sede milanese di Bankitalia: in Italia solo due pagamenti su dieci, il venti per cento, avvengono in forma digitale attraverso bancomat, carte di credito e di debito, app per pagare direttamente dal telefonino. È la metà della media europea. Che è la classica media del pollo, perché il Regno Unito arriva al sessantacinque per cento, il Nord Europa all’ottanta per cento con il campione della Finlandia. Avanza persino la Cina. Ma l’Italia resta in coda, battuta solo dalla Grecia e dai paesi dell’Est. E pensare che il convegno di cui parliamo si intitola “Una vita senza contanti”.
Vallo a dire a Matteo Renzi che nell’inverno 2015, da presidente del consiglio, fece quello splendido regalo agli evasori e ai riciclatori della decisione (che nessuno si è poi rimangiato) di alzare il limite dei pagamenti in contanti, sino a quel momento fissato in 999,99 euro, sino alla cifra-monstre di tremila euro, il triplo della Francia che aveva appena fatto il cammino inverso, da tremila e mille. Questo regalo, assai gradito a commercianti, albergatori, a professionisti, ristoratori e quant’altri sono ben felici di esser pagati (e di pagare) in nero, ha provocato una ulteriore impennata dell’economia sommersa, quel nero che l’Agenzia delle entrate aveva già qualche anno fa calcolato che valesse tra i 255 e i 275 miliardi e dunque qualcosa vicina al venti per cento del Pil.
Sostenne lo stesso Renzi che, “con questo piccolo gesto”, e chiamalo piccolo, sarebbero stati “incoraggiati i consumi”. Famosa la secca replica dell’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco:
Quante sono le persone che di solito vanno in giro con rotoli da cinquanta, cento e cinquecento euro? Di solito le persone oneste non si comportano così.
Come dire che dunque esiste una perfetta correlazione alla base delle soglie di trasferimento del contante e lo stock di evasione fiscale.
Ma consideriamo le altre possibili cause di questa arretratezza, tutta italiana, nel convivere con i contanti invece di utilizzare i pur diffusissimi, anche nel nostro paese, sistemi alternativi di pagamento. Una di queste potrebbe essere, ma solo per i piccoli commercianti, il canone per il pos (quel marchingegno mobile munito di una tastiera numerica che consente all’acquirente di effettuare il pagamento di merci e/o servizi) e l’interesse che si becca la banca sulle operazioni. Sono “prezzi” che ovunque nel mondo sono praticamente analoghi e che non impediscono, altrove, lo sviluppo della moneta elettronica. Singolare quindi che sia stato proprio il Corriere della Sera a sottolineare qualche tempo fa che quel canone, “in tempi di crisi, viene percepito come una tassa a favore delle banche”.
Perché il fatto che la contestazione sia raccolta proprio dal Corriere rappresenta un evento? Perché nel capitale azionario del quotidiano milanese il peso proprio delle banche è assai rilevante: supera il venti per cento sommando Mediobanca (9,93), Intesa San Paolo (6,54), Unicredit (più del 5), Generali e altri istituti finanziari. E qui si tocca con mano la tradizionale ingordigia degli istituti di credito che, non soddisfatti di farsi trasferire via carte di ogni genere un mucchio di danaro fresco, addirittura sfruttano l’occasione per un ricarico. Insomma le banche ci guadagnano addirittura due volte.
Tutto questo genera un danno non solo all’esercente (ripeto: al piccolo, ché i grandi fanno conto su grandi introiti e non si preoccupano più di tanto del ricarico bancario) ma anche e soprattutto all’economia nazionale. Ecco allora perché il primo reagisce frequentemente con un secco “non c’è la linea”, “il pos è guasto” o addirittura “per i saldi il pos non vale”. E perché ancor maggiore è il danno per l’economia: il non-uso del bancomat, come pure delle tradizionali carte di credito, rende i pagamenti non tracciabili, impedisce una maggiore sicurezza perché riducendo il contante in cassa (di benzinai, tabaccai, farmacisti) riduce la probabilità di rapine, e soprattutto compromette la lotta all’evasione e al riciclaggio.
D’altra parte – ecco un’altra causa –, le norme in vigore in Italia sui pagamenti elettronici hanno un vuoto del tutto inspiegabile, se non frutto di insondabili complicità: manca la previsione di una qualche sanzione a carico degli esercenti, dei professionisti e persino di aziende pubbliche (quante Asl?) inadempienti all’obbligo del pos per i pagamenti superiori ai trenta euro o che addirittura pretendono di caricare sul cliente il costo della transazione digitale (molti sportelli dell’Aci). Le due misure – contro l’ingordigia delle banche e perché l’obbligo presupponga una sanzione – possono, anzi debbono camminare insieme. Sino alla conquista (una mèta irraggiungibile? e sino a quando?) della vera misura antievasione: la detraibilità delle ricevute fiscali.
Una curiosità, infine, sulla geografia della diffusione e l’uso delle carte di credito e bancomat. In testa la Lombardia (22,7) e il Lazio (17,4), ma sono anche le uniche due regioni con una percentuale a due cifre. Al di sotto dell’un per cento ci sono Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Trentino-Alto Adige. In mezzo tutte le altre regioni con percentuali anche molto differenziate, ma decisamente basse. Gli innamorati del contante sono ancora un esercito compatto e vincente. Sanno chi ringraziare.

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