L’era di Kim

Dimostrando grandi capacità diplomatiche e una maggiore consapevolezza dell'importanza geopolitica del suo Paese nello scacchiere asiatico, il leader nordcoreano è riuscito dove non erano riusciti il nonno e il padre: trattare “alla pari” con la più grande superpotenza del mondo, suo “nemico” numero uno.
LUIGI PANDOLFI
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Si può pensare quello che si vuole a proposito della Corea del Nord e del suo regime, ma su un punto, adesso, si può tranquillamente concordare: la nuova leadership di Pyongyang sta dimostrando grandi capacità diplomatiche e una maggiore consapevolezza della sua importanza geopolitica nello scacchiere asiatico. Non è solo una questione di rapporti con gli Usa, a sessantacinque anni dall’armistizio di Panmunjeom, ma un gioco molto più grande, nel quale sono coinvolti anche gli interessi di Cina, Russia, Giappone e, ovviamente, Corea del Sud. Lo dimostrano gli incontri bilaterali di queste ultime settimane, i comportamenti, le paure, le strategie degli attori in campo.

Kim Jong-un è riuscito dove non erano riusciti il nonno, Kim il-sung, e il padre, Kim Jong-il: trattare “alla pari” con la più grande superpotenza del mondo, suo “nemico” numero uno. Al di là dei contenuti specifici dell’accordo, ancora da decifrare e comprendere in tutta la loro portata, per il giovane leader di quello che i media per anni – anche per pigrizia intellettuale – hanno preferito bollare semplicisticamente come il “Paese eremita”, l’incontro a Singapore con il numero uno della Casa Bianca è stato senz’altro un successo. 

Nel merito, i due i due Paesi hanno raggiunto un’intesa di massima su due questioni cruciali: completa denuclearizzazione della Penisola coreana da un lato, fine delle esercitazioni congiunte Usa-Corea del Sud al confine con il Nord. Inutile, in questo momento, chiedersi se il patto sarà rispettato, se davvero Pyongyang smantellerà il suo arsenale nucleare: il successo, non scontato, di questo vertice risiede nella stretta di mano tra i due leader, nel reciproco riconoscimento come interlocutori, nello stop a un’escalation di minacce e di accuse vicendevoli che nei mesi scorsi avevano tenuto il mondo con il fiato sospeso. 

Certamente, sul tavolo ci sono anche altre questioni, a cominciare dalle sanzioni (quelle decise dall’Onu e quelle decise unilateralmente dagli Stati Uniti), dal ruolo che Pyongyang potrà svolgere in futuro nella comunità internazionale, una sua eventuale integrazione nel commercio mondiale. 

Intanto, è bene sottolineare che la Corea del Nord di oggi non è più quella di Kim Il-sung, né quella della grande crisi del 2010-2012, gli anni delle foto dei bimbi scheletrici che girano su giornali e tv di tutto il mondo, dei visi emaciati di donne e uomini delle periferie urbane e rurali, dei campi alluvionati.

È un Paese in gran fermento, grazie anche al “nuovo corso” che è stato impresso all’economia, con significative “aperture” al mercato.

Beninteso, non stiamo parlando di riforme economiche “strutturali”, ma semplicemente dell’ammissione di piccoli spazi di mercato, nei quali confluiscono, in primo luogo, prodotti agricoli in eccedenza, quello che rimane ai contadini dopo aver assolto al proprio dovere nei confronti dello Stato (oggi i contadini trattengono fino al settanta per cento del raccolto).

Interessante, in questo quadro, il ruolo delle donne. Sono loro le principali protagoniste del nuovo corso nazionale (spesso anche il barbiere è donna!). Più “libere” dei cittadini maschi, che per la maggior parte sono addetti dell’industria, del settore militare, dell’agricoltura statale, le donne, spesso registrate come casalinghe, sono state le pioniere del commercio al dettaglio di prodotti agricoli, anche quando questo era ancora illegale, e di quello transfrontaliero con i vicini cinesi.

Dal piccolo contrabbando di frutta e verdura si è arrivati alla gestione profittevole da parte di privati di miniere e industrie, di ristoranti e parrucchieri, che, tuttavia, rimangono pur sempre di proprietà dello Stato. Le nuove imprese create con capitali privati, invece, vengono registrate come aziende di Stato, ma, di fatto, appartengono a chi le ha messe in piedi.

Oggi l’ottanta per cento dell’approvvigionamento di beni di prima necessità passa dai mercati privati. I mercatini periodici (Golmikiang) sono ormai tollerati e, sotto sotto, incoraggiati. Crescono pure gli investimenti esteri (sono ormai decine le aziende europee che hanno investito in Nord Corea in questi anni, bilanciando il declino delle vecchie “zone economiche speciali” sorte sulla base di investimenti cinesi e sudcoreani), nonostante l’embargo americano.

Grande vivacità anche nel settore delle costruzioni. Dal 2012 ad oggi, nella sola Pyongyang, sono sorti diciotto nuovi grattacieli di cinquanta piani l’uno e sono stati costruiti migliaia di nuovi alloggi per i cittadini.

Dove prende i soldi Kim Jong-un per queste realizzazioni? Se l’economia di questo Paese è un colabrodo, com’è possibile che i suoi dirigenti possano destinare, contemporaneamente, tante risorse allo sviluppo di nuove e più sofisticate tecnologie militari, al potenziamento e all’ammodernamento dell’edilizia residenziale e sanitaria, alla scuola, all’aumento delle strutture per lo svago dei cittadini? Alcuni osservatori propendono per una lettura che tenga conto del ruolo dei “nuovi ricchi”, detti donju (padroni del denaro), coloro che hanno saputo approfittare delle “riforme” dei primi anni duemila: collaborazione finanziaria con lo Stato in cambio di maglie più larghe per le loro attività, compresa quella di compravendita dei “diritti di residenza”, un fenomeno in crescita secondo molti analisti.

In realtà, negli ultimi tre anni si è assistito a un incremento importante della spesa statale per nuove infrastrutture. Dati da leggere insieme a quelli sull’andamento del Pil (+3,9 per cento nel 2016, il più alto degli ultimi diciassette anni, secondo la Bank of Korea) e della bilancia commerciale, più dinamica che in passato. L’interscambio con la Cina – principale partner economico del Paese – nel 1999 valeva appena 0,37 miliardi di dollari, ora tocca i sei miliardi. Più facile riconoscere che l’economia va meglio, quindi, con conseguente espansione del bilancio statale (nuove e maggiori entrate), che cercare risposte in chissà quali inconfessabili intrecci tra burocrati, donju, contrabbandieri, affaristi locali e stranieri. Senza trascurare il fatto che il calcolo dei costi di realizzazione di un’opera in un paese come la Corea del Nord non può essere fatto come per un qualsiasi paese capitalista.

I principali problemi di questo nuovo corso si chiamano: crescita della disuguaglianza, disparità nell’accesso ai beni di consumo, allargamento della forbice tra città e campagna. Lo Stato, con i suoi prezzi simbolici, non è in grado di soddisfare tutto il fabbisogno di prodotti alimentari e di prima necessità. Ma al mercato semiufficiale (Golmikiang) alcuni beni possono arrivare a costare anche cento volte tanto. 

Nel complesso, parliamo di un Paese, che, nonostante l’isolamento e l’embargo, al netto delle necessità del sistema di difesa (la quota del bilancio statale destinata alla difesa è pari al 15,8 per cento), sta molto meglio che nel passato, soprattutto recente, e continua a investire molto nella ricerca e nella scuola, nella sanità, nel futuro dei giovani.

Alcuni esempi: Il numero di medici e di posti letto ospedalieri per ogni mille abitanti nel 2003 era rispettivamente di 3,29 e 13,2 (in Corea del Sud era di 1,96 e 12,3 nel 2008), numeri sovrapponibili, e in alcuni casi perfino superiori, a quelli di alcuni paesi occidentali (in Germania è, rispettivamente, di 3,53 e 8,17). La speranza di vita alla nascita (settanta anni) è più bassa che nei principali paesi occidentali, ma in linea e, in alcuni casi, superiore a quella di alcuni, importanti, paesi asiatici.

La spesa per l’istruzione e la cultura (e le arti) occupa, rispettivamente, il 9,2 e il 6,8 per cento del bilancio statale (in Italia nel 2014 era del 7,9 e 1,4 per cento), a testimonianza di un’attenzione particolare per le future generazioni. Recentemente, l’istruzione obbligatoria, interamente gratuita, è stata portata a dodici anni (era di undici anni), tra scuola elementare, media e superiore, con relativo incremento della spesa per l’edilizia scolastica e l’acquisto di computer, software, nuove apparecchiature meccaniche e di precisione. La scuola e i giovani. Forse è proprio da qui che bisogna partire per comprendere quanto sia reale il consenso verso il regime e il nuovo leader, e dove sta andando la Corea del Nord.

Appunto, dove va la Corea del Nord? Molto dipenderà da quello che succederà a seguito di questo vertice di Singapore. Verificati gli sviluppi (e il rispetto) dell’accordo sul nucleare e la sicurezza appena siglato, potrebbero cadere una serie di restrizioni commerciali con le quali oggi fa duramente i conti Pyongyang. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite potrebbe adottare una nuova risoluzione per consentire alla Corea del Nord di riprendere le esportazioni di carbone, di prodotti ittici, alimentari e tessili e di importare materie prime e macchinari. Gli stessi aiuti internazionali potrebbero fungere da leva per altri cambiamenti interni, sia economici che politici. 

Per adesso, stiamo alle parole di Trump: ”Kim vuole la denuclearizzazione e la pace più di me, sa che sarà un bene per il suo popolo. Abbiamo sottoscritto un documento di ampio respiro, credo che lui onorerà gli impegni”.

L’era di Kim ultima modifica: 2018-06-12T17:31:51+02:00 da LUIGI PANDOLFI
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