Avevamo sognato tutto molto diverso con i nostri libri, dietro il muro del nostro giardino fra i mirti e gli oleandri.
Così Georg Büchner, l’irrequieto scrittore tedesco convinto che conoscere e far conoscere la realtà serva a trasformarla. Potrebbe essere questa una efficace sintesi del Sessantotto jugoslavo, la contestazione – brevissima, appena lo scorcio della prima settimana di giugno – che scuoterà una società che si proclamava socialista, terzomondista ed autogestita. Come proclamarono gli studenti belgradesi nella facoltà di filosofia occupata:
Noi non siamo l’opposizione, ma la negazione di tutto ciò che è menzogna.
Per dirla con un titolo del filosofo Svetozar Stojanović, non dovevano esserci più scarti tra “gli ideali e la realtà”, proprio in nome di un giovane Marx che esigeva la “critica spietata di tutto l’esistente”. Frase che fu l’incipit con il quale nel 1964 a Zagabria Gajo Petrovic avviò la tormentatissima e breve avventura della rivista marxista Praxis. Emergevano infatti dalle riflessioni degli studenti le critiche sul permanere delle disuguaglianze sociali, su un’autogestione operaia che non appariva autentica, sull’emergere di una “borghesia rossa” burocratizzata. “Noi siamo indignati per le enormi differenze sociali ed economiche nella nostra società”, diranno nella breve lettera che invieranno al “compagno Tito” il 4 giugno.
Invitato dagli studenti in assemblea permanente, l’attore Stevo Žigon lesse la famosa pièce “La morte di Danton” di Büchner interpretando un Robespierre spietato quanto onesto. Andrà declamando tra gli applausi:
[…] mentre guardiamo come questi marchesi e conti della rivoluzione giocano d’azzardo, mentre li guardiamo, con pieno diritto possiamo domandarci se sono loro i saccheggiatori del popolo! Non c’è accordo, non c’è pace con gli uomini per i quali la Repubblica è una speculazione e la Rivoluzione un mestiere!
Parole dure che ricalcano quelle con cui il grande dissidente Milovan Gilas, undici anni prima, aveva censurato la nascente burocrazia del regime, da lui definita la “nuova classe”.
Il brevissimo Sessantotto jugoslavo terminò il 9 giugno con un discorso televisivo di Tito che, con toni assai persuasivi, sconfessò gli eccessi polizieschi e promise di occuparsi personalmente dei problemi sollevati dagli studenti: addirittura, aggiunse, “Se non sono capace di risolverli, non posso rimanere al mio posto” (in realtà le sue parole, a trasmissione chiusa, furono ben diverse se non ostili). Gli studenti, entusiasti, ritornarono alle loro attività, ignari del monito brechtiano (“Quando viene il momento di marciare molti non sanno/Che il nemico marcia alla loro testa”). Scattò invece la repressione ed oltre a Praxis, già in odore di eresia, vennero chiuse diverse riviste studentesche a Belgrado, Sarajevo, Zagabria.
Forse l’epitaffio migliore di quel momento è della filosofa croata Rada Iveković, che vent’anni dopo scriverà:
Si è aperta una crepa molto piccola in quel Sessantotto e allora non significativa. Ma non si è più potuto rattopparla. Il dubbio si è insinuato irrimediabilmente in noi. … L’ideologia è diventata vecchia. Monumenti vuoti tutt’intorno. L’anno Sessantotto arriva pian piano. È lento come la tartaruga.
Lento e breve. E la crepa a cui accennava la Iveković in realtà ne nascondeva altre. Come il sondaggio che nel ’66 rivela che il 40 per cento degli studenti belgradesi non vuole avere a che fare con i croati ed il 55 per cento è contrario ai matrimoni misti (tra serbi e croati), mentre gli studenti di Lubiana chiedono più “slovenità”.
O come il fatto che nella Lega dei comunisti i giovani sono appena il 13 per cento degli iscritti. Mentre nel ’67 la Dichiarazione sulla denominazione e sulla posizione della lingua letteraria croata la dice lunga sulla liturgia ufficiale della fratellanza e unità.
Anche il Sessantotto in Kosovo appare – con il senno di poi – fin troppo chiaro con le sue manifestazioni irredentistiche ed albanofile: d’altronde i serbi erano già ridotti ad essere un quarto della popolazione di quella provincia autonoma.
In realtà, soffocato facilmente il flebile Sessantotto, non passerà molto tempo che le crepe nascoste si allargheranno in tutta la loro profondità. Solo tre anni dopo ecco il Maspok, la “Primavera croata”, la repressione, ma poi anche la Costituzione del ’74, un ircocervo che tentava di salvare il salvabile “repubblicanizzando” la federazione (circolerà una battuta: se la Jugoslavia si disintegrasse, le repubbliche non se ne accorgerebbero) e la diffusione di una classe media consumista assai più che comunista. Una classe media – diranno i prassisti, sempre critici verso la cosiddetta “economia socialista di mercato” – per la quale “essere di sinistra viene considerato qualcosa di negativo”.
Negli anni Ottanta del dopo Tito, “l’esplosione di verità” ignorerà le convulsioni del Sessantotto e si nutrirà di narrazioni nazional-nazionalistiche, come sappiamo. Ma per il sociologo serbo Nebojša Popov nel Sessantotto lo scontro sociale fu reale e produsse nuove pratiche di pluralismo ideale come anche autoritarismi che spinsero i giovani verso valori privati ed edonistici. Li troveremo entrambi nei frammentati anni Novanta ormai post-jugoslavi. Ma il sogno di cinquant’anni fa degli studenti fu davvero “tutto molto diverso”, per dirla con Büchner, e tale rimase.

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