Dopo le grandi proteste delle comunità native statunitensi contro le compagnie petrolifere e la costruzione del Dakota Access Pipeline, che lo scorso anno culminò con l’occupazione di Standing Rock, dando poi vita al più grande raduno indigeno del secolo, è emerso un altro triste fenomeno che collega il boom petrolifero alla violenza sulle donne native.
Un’inchiesta del Centers for Disease Control ha rivelato infatti che negli Stati Uniti quasi l’ottanta per cento delle donne indigene ha subito violenze e almeno il cinquanta per cento di loro è rimasta vittima di abusi sessuali. Può sembrare strano, ma la crescita vertiginosa di queste violenze è collegata anche a quello che i popoli nativi considerano “lo stupro della Madre Terra” a opera delle compagnie petrolifere.

Christine Nobiss
Proprio la crescita dei grandi progetti legati a questa industria ha causato un enorme afflusso di operai maschi non nativi all’interno o nei pressi dei territori che ospitano le comunità indigene. Ma già prima dell’inchiesta l’attivista Christine Nobiss aveva previsto il collegamento tra le aggressioni alle donne indigene e il boom petrolifero:
Potrebbe non essere ovvio per le persone non native, ma la salute e la sicurezza dei nativi americani è direttamente collegata alla salute e alla sicurezza della nostra terra.
Molte ragazze continuano a sparire nel nulla, come è accaduto recentemente alla diciassettenne Chelsey Lasette Arredondo. Un’altra attivista, la Jicarilla Apache Eryn Wise, in merito a questo fenomeno ha denunciato:
È una situazione assurda e intollerabile. Una madre mi ha raccontato di essere stata avvicinata da uno di questi figuri che le ha chiesto quanto voleva in cambio della sua bambina».

Eryn Wise
Le denunce delle violenze, purtroppo, non hanno trovato adeguati riscontri giudiziari e le vittime vengono tuttora regolarmente ignorate e abbandonate al loro destino. Secondo l’U.S. Government Accountability Office, almeno nel cinquanta per cento dei casi di violenze sessuali le donne native coinvolte hanno ricevuto un rifiuto dagli studi legali a cui si erano rivolte. In tal senso anche Terry Henry, ex membro del direttivo del Congresso Nazionale degli Indiani d’America sulla violenza contro le donne native, ha confermato:
La violenza che stiamo vivendo è direttamente connessa con i molestatori che camminano liberi senza timore della legge, senza paura della responsabilità civile o di procedimenti penali.
Inoltre, secondo i dati del Bureau of Justice Statistics, le violenze e gli stupri contro le donne indigene, nel settanta per cento dei casi, avvengono da parte di maschi non nativi, e il venti per cento delle vittime ha tentato il suicidio a causa del trauma subito.
Normalmente accade che, da una parte, i tribunali tribali non hanno la possibilità giuridica di perseguire gli autori non nativi dei reati, mentre dall’altra le autorità federali si rifiutano di perseguire crimini avvenuti all’interno delle riserve. In questo modo il buco nero giurisdizionale ha creato una proliferazione di aggressioni che crescono anche grazie alla certezza dell’impunità e quel che ne consegue; secondo la Nobiss
è un continuo atto di violenza che ha le sue radici in un programma imperialista.
In un suo articolo, Eryn Wise, concludeva:
La continua profanazione dei territori indigeni e dei luoghi sacri derivante dai progetti di estrazione ha contribuito a malattie, difetti di nascita, problemi di salute riproduttiva e ha ritardato lo sviluppo della prima infanzia tra i membri della comunità. Maggiore attenzione dev’essere data alle donne indigene che vivono vicino a punti di estrazione. Questa è la terra che abbiamo ereditato dai nostri antenati. Siamo ancora qui, intrepidi e Indigeni; e stiamo andando avanti.

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