Israele, verso un’etnocrazia?

“Israele è uno stato di tutti i suoi cittadini”. Doveva essere questa la modifica che la minoranza arabo-israeliana voleva inserire nella costituzione. E che il parlamento israeliano ha deciso di non discutere.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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In Medio Oriente c’è una democrazia, ma non è Israele. A sostenerlo non è un pericoloso filopalestinese ma un quotidiano di Tel Aviv: Haaretz. Questa democrazia, spiega l’articolo, è la Giordania, che ha saputo gestire, con un ruolo da protagonista di re Abdallah II, una fase particolarmente complicata, segnata da proteste di piazza per il carovita, attraverso il dialogo tra il governo e l’opposizione, riconoscendo a quest’ultima ragioni e spazi. Quanto poi a Israele, da tempo ormai i suoi ambienti intellettuali, di profilo progressista, avevano messo in guardia su una pericolosa deriva etnocratica del paese e delle sue istituzioni.

ytali.com aveva già affrontato questa spinosa problematica, dando voce all’Israele critico, ai suoi esponenti culturali, come lo storico Zeev Sternhell, allarmati non solo per lo spostamento sempre più a destra dell’asse politico d’Israele, ma ancor più per l’impronta ideologica che supporta questa “deriva” ultranazionalista. Un grido d’allarme reso ancora più forte dopo che la Knesset, il parlamento israeliano, ha deciso a maggioranza di non discutere e dunque non votare una proposta di legge presentata dai parlamentari arabi israeliani (la Lista Araba Unita è la terza forza della Knesset) il cui titolo era: Basic Law: Israel (is a) State of All Its Citizens. Israele è uno stato di tutti i suoi cittadini.

Sembrerebbe una ovvietà, soprattutto di fronte alla reiterata affermazione dei governanti israeliani, spesso dopo le critiche per il pugno duro utilizzato contro i palestinesi, che Israele è “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Ebbene, in quel testo di legge, non discusso né votato, questo si asseriva: che Israele è lo Stato non della popolazione ebraica ma anche dell’altro venti per cento del paese, la comunità araba israeliana, 1.023.000 milioni di persone. Lo stato di tutti i suoi cittadini.

La Knesset

A sostegno della decisione del presidente della Knesset si sono espressi partiti che spaziano su tutto l’arco politico: Likud, Labor, Yesh Atid, Kulanum Israel Beitenu e Torah Judaism. Il membro di un altro partito, Betzael Smotrich di Jewish Home (il partito della destra radicale di Naftali Bennett) si è astenuto, sostenendo che nel merito la decisione era giusta ma che il presidente non avesse l’autorità per assumerla. Nel merito, otto dei dieci partiti presenti in parlamento, si sono dichiarati d’accordo (le eccezioni sono la Lista Araba Unita, terza forza della Knesset, e la sinistra pacifista di Meretz). Partiti di sinistra, di centro, laici, religiosi, di destra ortodossa e di destra nazionalista: 95 parlamentari su 120 hanno votato la non messa in discussione della proposta di legge.

Molto più di una maggioranza politica schiacciante. È il segno di qualcosa di più profondo, identitario: lo stato d’Israele è degli ebrei, gli altri sono “secondari”, un incidente della storia. Su questo, non c’è discussione. Né voto. È la dittatura della maggioranza, ma non in un senso classicamente politico, se fosse così sarebbe un fatto grave ma che potrebbe essere superato se e quando con il voto quella maggioranza venisse ribaltata. Ma quei 95 “no” alla discussione, sono molto più di una maggioranza politica: sono l’affermazione di una supremazia “etnico-identitaria” che, nel momento in cui afferma con tali forzature uno degli elementi fondativi dello stato d’Israele, l’essere il focolaio nazionale del popolo ebraico, ne mina l’altro, il suo carattere democratico, aperto, inclusivo. 

A vincere, culturalmente ed ideologicamente prima ancora che sul piano elettorale, è il revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, l’ideologo della destra israeliana, colui che ha sempre messo al primo posto “Eretz Israel” (la sacra terra d’Israele), rispetto a “Medinat Israel” (lo stato d’Israele). A trionfare è la visione messianica che Israele ha di se stesso, quella di un popolo eletto che ha una missione da compiere e una terra da conquistare.

L’ebraismo e la democrazia occidentale sono incompatibili,

sentenzia il rabbino Yossef Dayan, colui che nel 1995 pronunciò contro Yitzhak Rabin, pochi mesi prima che il premier fosse assassinato dallo zelota Ygal Amir, la “Pulsa Nura”, cioè la “staffilata di fuoco”.

Nel vocabolario politico-ideologico dell’Israele trionfante non c’è spazio per la parola “compromesso”, così come viene declinata da uno dei più grandi scrittori contemporanei d’Israele, Amos Oz, testimone dell’Israele, minoritaria ma viva, che si batte ancora per il dialogo e che crede che pace senza giustizia non abbia senso:

Nel mio mondo la parola ‘compromesso’ è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono i compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte.

annota Oz nel suo libro Contro il fanatismo.

Di certo, è la morte della democrazia. Ed è questo il punto più dolente, che va affrontato di petto, sapendo di cogliere un nervo scoperto. Israele non è più una democrazia. È diventato un’etnocrazia. È un passaggio epocale. È la morte del sionismo. Ed è il trionfo una destra che non ha mai dismesso il sogno di realizzare la  “Grande Israele”.

Moshe Ya’alon

Tra i più accaniti sostenitori di questa etnocrazia è il neo ministro della difesa, il super falco Avigdor Lieberman. A fargli posto è un signore che di “liberal” non ha proprio nulla:, faceva parte dello stesso partito di Netanyahu, il Likud, e  da ministro non aveva certo usato la mano di velluto nei confronti dei palestinesi. Il suo nome è Moshe Ya’alon. Ecco alcuni passaggi della dichiarazione con cui annunciò, neanche un anno fa, le sue duplici dimissioni: dal governo e dalla Knesset (il parlamento israeliano):

Elementi estremisti hanno preso il potere nel paese […] Ho combattuto con tutte le mie forze contro le manifestazioni di estremismo, violenza e razzismo nella società israeliana, che minacciano la sua robustezza, e poco per volta si infiltrano anche nelle Forze di difesa israeliane, danneggiandole…Ho combattuto con tutte le mie forze contro i tentativi di delegittimazione della Corte Suprema e dei giudici di Israele, tentativi che hanno conseguenze nefaste sullo stato di diritto, il che potrebbe essere disastroso per il nostro paese.

Per concludere così il suo possente j’accuse:

In generale, la società israeliana è una società sana, e la maggioranza di coloro che la compongono è sana di mente e aspira a un paese ebraico, democratico e liberale […] ma con mio grande dispiacere, estremisti ed elementi pericolosi hanno preso il sopravvento in Israele e nel Likud e ne stanno scuotendo le fondamenta minacciando di danneggiare i suoi abitanti.

E ancora:

Purtroppo, i politici di alto livello nel paese hanno scelto la via dell’istigazione alla segregazione di parti della società israeliana, invece di cercare di unificarla. Non posso sopportare che saremo divisi a causa del cinismo e dell’aspirazione al controllo, e ho espresso il mio parere sulla questione più di una volta, dato che sono sinceramente preoccupato per il futuro della società israeliana e il futuro delle prossime generazioni.

Ed è in questo contesto, che la questione palestinese s’intreccia indissolubilmente con quella che Avishai Margalit, professore di filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, tra i più accreditati  politologi israeliani, definisce la “tragedia del sionismo”. Spiegandola così:

Secondo me la tragedia del sionismo è il suo scontro finora inconciliabile con i palestinesi, che getta un’ombra lunga e scura sulle aspirazioni morali del sionismo. E’ un conflitto tragico perché è facile per tutte le persone di buona volontà rendersi conto della forza morale delle rivendicazioni di entrambe le parti. Tuttavia non c’è parità morale. L’onere morale della prova è a carico d’Israele, ovvero dell’incarnazione del sionismo. La ragione di ciò non è che agli ebrei si facciano richieste morali più elevate perché essi stanno su un piano morale più alto, ma al contrario perché esiste un’asimmetria tra il potere detenuto dagli israeliani e dai palestinesi. L’aver così tanto potere in più pone a Israele un obbligo morale aggiuntivo.

Margalit rimarcava questo (nel libro Volti d’Israele), nel 1998. Diciotto anni dopo, l’asimmetria è cresciuta ulteriormente, e quell’obbligo morale non è stato minimamente ottemperato. E oggi Israele, non solo nella maggioranza che governa ma in un senso comune che va oltre i tradizionali confini destra/sinistra, va nella direzione opposta a quella indicata da Abraham Bet Yehoshua nella definizione di identità nazionale:

Dato che la patria non è solo territorio ma anche un elemento primario nell’identità individuale e nazionale, la divisione della terra d’Israele in due stati non è solo l’unica soluzione politica, ma è anche un imperativo morale. E chi si impossessa di parti di territori palestinesi come fa quotidianamente lo stato d’Israele al di là della linea verde deve sapere che deruba e ferisce la parte più delicata dell’identità dei suoi abitanti. E nessuno sa meglio di noi ebrei – ce lo insegna la nostra storia – quanto l’identità nazionale e religiosa sia stata per noi importante e quanto siamo pronti a sacrificarle.

Ma la lezione della storia, evocata da Yehoshua, non vive più nell’etnocrazia che oggi si è fatta stato. Lo stato d’Israele. Ma a ben vedere, l’esercizio di potenza che ha avuto come “campo di battaglia” l’aula della Knesset, così come il pugno di ferro, e di fuoco, con cui Israele ha affrontato le recenti manifestazioni di protesta dei palestinesi a Gaza, coprono un vuoto strategico, un’assenza di visione a lungo termine che segnano l’attuale leadership israeliana.

Benjamin Netanyahu

È come se per tenere unito il paese, occorra sempre e comunque individuare un nemico esterno (Hamas, l’Iran, i jihadisti, Hezbollah…) contro cui fare fronte unito. E quando ciò non è sufficiente, ecco entrare in campo, invadendolo, l’appartenenza etnica: il noi (ebrei) contro loro (gli altri, la minoranza araba). Non vogliamo discutere quella proposta di legge, perché non vogliamo fare i conti con l’irrisolto problema della “normalità”, quella di un paese che non discrimina i suoi cittadini a seconda se sei ebreo o arabo. Arabo, non musulmano. Perché l’etnocrazia va oltre la fede che si professa, istituzionalizza le differenze, ne fa un tratto distintivo che ti accompagna per tutta la vita, in ogni sfera della vita sociale. Quei 95 parlamentari hanno avuto paura di discutere: e questo non si addice per niente alla (pretesa) unica democrazia del Medio Oriente.

Israele, verso un’etnocrazia? ultima modifica: 2018-06-15T16:12:32+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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