Perché gli elettori votano in una certa maniera? È la domanda che ossessiona gli studiosi del comportamento elettorale. E che la sinistra, così incline alle pratiche auto-punitive e all’autocommiserazione, ha trasformato nel dolente interrogativo “perché gli elettori votano in base alle loro emozioni e non razionalmente”. Cioè “perché gli elettori non ci votano”. A parte la mal celata pretesa di essere i soli a parlare razionalmente, corollario al teorema della superiorità antropologica, il centrosinistra da anni è alle prese col tentativo di capire perché gli elettori le preferiscono il centrodestra – un tempo – e i vari movimenti populisti oggi.
Non si tratta di un problema così semplice da sbrogliare. Anche la ricerca accademica sul comportamento elettorale ha una storia lunga e appassionante, nella quale alla ricerca di spiegazioni monocausali si sono succedute nel tempo approcci che danno conto della complessità del tema. Oggi esistono diversi modelli che tentano di comprendere l’explanans, quelle variabili indipendenti che determinano il comportamento politico dei cittadini.
Negli anni Cinquanta Paul Lazarsfeld parlava dell’importanza nelle scelte di voto della socializzazione politica, della famiglia e degli amici. Nello stesso periodo la psicologia politica osservava che gli elettori facevano la loro scelte sulla base della condivisione di valori compatibili con gli interessi di un gruppo specifico: il voto era l’atto di adesione a una certa opzione politica. Poi venne Anthony Downs e “Una teoria economica della democrazia” (1957): i cittadini non sono più oggetti passivi dell’azione dei partiti politici, ma votano in base ai loro interessi. Sono ragioni strumentali quelle che spingono a votare per un determinato partito politico piuttosto che per un altro.
L’approccio di Downs presuppone che l’elettore sia in possesso di tutte le informazioni necessarie per soppesare le differenti alternative e poter elaborare la propria scelta. Ma l’elettore è in grado di trattare tutte le informazioni che arrivano? Può esprimere facilmente una valutazione tra differenti alternative? E qui il contributo delle neuroscienze e della linguistica è stato fondamentale. Ad esempio, ne “L’errore di Cartesio“ (1995) Antonio Damasio, neuroscienziato statunitense, afferma che la politica implica tanto la riflessione e le conoscenze quanto le emozioni: la ragione funziona correttamente solo con le emozioni. Anche il linguista George Lakoff parla di “errore razionalistico” ogni volta che si sottovaluta “la dimensione cognito-comportamentale e simbolica” che esercita al contrario grande influenza sugli elettori.
Le idee quindi contano. Le emozioni contano. Il linguaggio attraverso cui esprimiamo idee e emozioni conta. Come idee, emozioni e linguaggio definiscano il comportamento elettorale dei cittadini resta ancora da capire. E in questo caso l’interdisciplinarità diventa un risorsa fondamentale.
Negli ultimi anni, ad esempio, la linguistica cognitiva ha cercato di fornire delle risposte attraverso la nozione di frame, quelle
[…] strutture mentali che danno forma al modo in cui vediamo il mondo […] Non puoi vederle o sentirle. Fanno parte di quelle che gli scienziati chiamano “inconscio cognitivo”, delle strutture mentali a cui non possiamo facilmente accedere, ma di cui conosciamo le conseguenze […] veniamo a conoscenza dei frame anche attraverso il linguaggio […] quando senti una parola, si attiva una struttura mentale nel cervello.
Chi scrive questo è George Lakoff, uno degli studiosi che di più ha cercato di far comprendere ai Democratici americani le ragioni delle loro sconfitte (vi ricordate “Non pensare all’elefante”?) e di analizzare le motivazioni alla base delle scelte elettorali dei cittadini. L’idea di Lakoff è che l’uso di metafore e elementi simbolici che avviene nei processi di framing riescono ad eliminare qualsiasi forma di analisi critica.
Lo ha fatto anche recentemente a proposito di Donald Trump in un articolo per The Guardian, scritto a quattro mani con Gil Duran.
Lakoff e Duran ripetono che il linguaggio della politica forma il modo in cui noi pensiamo. Attivando le strutture del cervello chiamate frame-circuits, utilizzate per comprendere le esperienze e che si rafforzano quando sentiamo il linguaggio che le attiva, la politica può cambiare il modo in cui i cittadini vedono il mondo. La ripetizione continua lo rende poi permanente. Nel caso di Trump, si pensi ad esempio all’utilizzo dei termini deal e winning. Non si tratta soltanto di parole:
[…] sono centrali nella sua visione del mondo. Quelli che vincono lo meritano; quelli che perdono, se lo sono meritato. Quelli che non vincono sono sempre dei “loser”. Questa è una versione della responsabilità individuale, una pietra miliare del pensiero conservatore. È una gerarchia morale. Quelli che vincono sono migliori di coloro che perdono.
“Una pietra miliare del pensiero conservatore”. Perché per far funzionare i frame, bisogna conoscere che cosa pensano gli elettori, quali sono i valori di riferimento che attivano queste strutture mentali. Non si tratta soltanto di definire un linguaggio efficace dal punto di vista della comunicazione politica: per trovare le parole da usare devi comprendere il pensiero che ci sta dietro. O come diceva il guru repubblicano Fran Luntz: non conta ciò che dici, ma quello che le persone sentono.
Puoi aver il miglior messaggio al mondo, ma la persona lo interpreterà sempre attraverso il prisma delle proprie emozioni, dei propri preconcetti, dei propri pregiudizi e delle credenze pre-esistenti […] ci si deve mettere nei panni dell’altro per conoscere quello che pensa e sente nei più profondo recesso della mente e del cuore.
L’attivazione dei frames, non avviene con tutti. Anche Drew Westen, fortunato autore de “The Political Brain”, pensa che le elezioni siano vinte e perse principalmente su valori e emozioni dell’elettorato, compresi i sentimenti “di pancia”. Ma solo su una parte dell’elettorato, perché la “mente” di parte (partisan) non riflette sull’informazione politica che le viene fornita: dati e statistiche in questo caso non servono a nulla. Perché, secondo Westen, quando persone di parte affrontano informazioni che possano rappresentare una minaccia, queste sono più propense a giungere a conclusioni prevenute: la mente registra il conflitto tra dati e i loro desideri e cerca tutti i modi per evitare delle emozioni sgradite.
E allora che cosa fare per convincere gli elettori a votare per il tuo partito, quando si impone un frame che si trova molto lontano dalle politiche che proponi? Come fare per fronteggiare, ad esempio, l’attuale maggioranza di governo sul tema dell’immigrazione e del rispetto delle minoranze? Purtroppo non è semplice introdurre nuove idee e nuovi linguaggi. Serve tempo. I repubblicani c’hanno messo trent’anni (e hanno avuto bisogno di molti finanziamenti).
Si può però accogliere alcuni dei suggerimenti di Lakoff: la sinistra cominci a parlare di valori, non di numeri o di politiche.

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