Evoluzione versus rivoluzione? Figuriamoci. Marx e Darwin uniti nella lotta? Non esageriamo. Diciamo un’oggettiva complementarietà nei destini paralleli e nelle opere di due pilastri del pensiero contemporaneo, Charles Darwin (1809-1882) e Karl Marx (1818-1883), quasi coetanei benché estranei l’uno all’altro, se non per via di una reciproca conoscenza per così dire culturale: “L’origine della specie”, squinternato e zeppo di annotazioni fra i libri e manoscritti che affollano il disordinato studio del rivoluzionario tedesco nel malconcio appartamento di Maitland Park e, per converso, il “Capitale”, in edizione tedesca pressoché intonsa, nella libreria dell’elegante dimora di Down House, dove il grande naturalista passa i suoi giorni, amorevolmente accudito dalla moglie Emma, contrariata soltanto dalla distanza che il marito ha posto, con il suo evoluzionismo, una volta per tutte, fra sé – diciamo pure la natura, l’umano – e Dio.
Siamo a Londra, ovviamente, e l’anno è il 1881, quasi prossimo alla dipartita di entrambi, curati dal medesimo medico, il dottor Beckett, libero pensatore, il naturalista abbiente affetto da insopportabili emicranie e il rivoluzionario eternamente in bolletta, afflitto da una bronchite ormai cronica. Giocatosi la carriera clinica per le sue coraggiose idee, Beckett gira per le case dei ricchi come dei poveri, facendo meglio che può il suo mestiere. È intellettualmente attratto dalle pur differenti personalità dei suoi due pazienti illustri e vorrebbe farli incontrare, essere testimone del loro faccia a faccia. E l’incontro ci sarà, anche se fortuito, a sua insaputa, con l’enorme rammarico di aver mancato un’occasione storica.
Incontro immaginario, ben s’intende, fra verità e finzione, nelle pagine del bell’esordio letterario della giornalista tedesca Ilona Jerger “E Marx tacque nel giardino di Darwin”, in edizione italiana per i tipi di Neri Pozza, con traduzione dal tedesco di Alessandra Petrelli. In appendice al romanzo l’autrice si premura di precisare fatti e finzione per ciascuno dei personaggi e degli accadimenti narrati, com’è giusto che sia.
Ma la bellezza di questa sua idea e di questo suo romanzo, che poggia peraltro su solide basi documentarie, è tale da relegare in secondo piano l’effettiva fattualità dell’incontro, che d’ora in poi ci sarà stato esattamente in forza dell’immaginario evocato, con un’empatia (la nostra) ben superiore a quella riscontrabile, anche soltanto letterariamente, nel fugace incontro fra i due ostinati pensatori. Che di cose in comune ne hanno, comunque, anche se nel loro breve incontro non saranno troppo ciarlieri, diffidenti piuttosto. Un Mike Leigh d’annata ne farebbe un ottimo film.
Mentre se ne stavano lì l’uno accanto all’altro, si levò il vento e percosse gli alberi, dai quali si staccò una quantità di gocce che cadevano a terra tamburellando. Senza quel rumore, forse si sarebbe potuto sentire il fruscio delle barbe.
Fra una visita e l’altra, auscultando i malandati polmoni del Moro e prescrivendo qualche lenitivo al naturalista, ancora intento a studiare amorevolmente i “suoi” lombrichi nel giardino di casa, Beckett scopre qualche curiosa analogia. Ad esempio, il bizzarro destino che li avrebbe dovuti accomunare nel nome di credenze poi ampiamente confutate. Un avvenire da pastore anglicano per il buon Darwin, ben prima di quella celebre spedizione intorno al mondo, a bordo del Beagle, che gli consentirà, appena ventiduenne, di aprire gli occhi e rivoluzionare il naturalismo giungendo a postulare il determinismo scientifico e la teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale (altro che Genesi, per l’appunto).
E un futuro da rabbino per Marx, non ci fosse stata la necessità per la sua famiglia, nella civilissima ma pur sempre bigotta Treviri, di abbracciare la religione cristiana per mantenere il proprio status borghese. Ateo sino al midollo poi Marx, agnostico o tutt’al più deista Darwin, giusto per venire incontro alla devotissima moglie, che in qualche modo l’avrà vinta soltanto post mortem. Pazienza poi se Marx darà dell’opportunista a Darwin il giorno della sua sepoltura solenne all’Abbazia di Westsminster, accanto ai grandi d’Inghilterra (Newton, tra gli altri), prima di partire per Algeri in cerca d’aria buona per i suoi polmoni: sul conto del rivoluzionario peseranno altri peccati, tra cui – come scoprirà Beckett – l’essersi rifiutato di riconoscere il figlio avuto dalla domestica Lenchen, che gli resterà fedele sino al trapasso, poi “legittimato” – il figlio – dal solito Engels, angelo custode in solido del Moro per buona parte della sua sofferta esistenza.
E se non sarà poi sul piano strettamente politico che andranno rinvenute ulteriori affinità, restando Darwin un conservatore inglese per il quale troppo egualitarismo potrebbe decisamente risultare dannoso, occorrerà guardare piuttosto al “metodo” delle loro indagini, in ambiti pur diversi del sapere, per cogliere la comune straordinaria modernità del loro procedere: quell’osservare e analizzare la realtà, al di là di preconcetti e per l’appunto credenze (o ideologie), che costituisce l’imprescendibile “verità” del materialismo scientifico e dialettico, variamente declinato nella storia dell’umanità e delle sue tribolate vicende. Al presente, facendo tesoro del passato e lavorando per il futuro, senza per questo lasciarsi andare all’idealismo dei sogni impossibili.
È questo straordinario nesso “progressista” che il dottor Beckett vede bene nei destini paralleli di Darwin e Marx, condividendone l’essenza ben oltre le umane sorti dei due pensatori ormai al crepuscolo.
Non sarà il solo.

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