F lorian Grott vive a Guardia di Folgaria, una minuscola comunità montana della valle del Rio Cavallo. È figlio di Cirillo, scultore anch’egli e poeta trentino di fama, scomparso ancora giovane verso la fine del secolo scorso.
La sua casa è un’isola sul costone di montagna che porta al borgo e quando dalla terrazza guardi il mondo d’attorno, puoi capire perché molti scultori e quelli del legno, in particolare, si fanno in questi paraggi. E non è per l’abbondanza di alberi – o almeno non solo per quello che pure è un buon suggerimento materico per dire – ma per la condizione di un ambiente che stimola il bisogno di andare oltre l’immobilità della natura, di sentirsi parte della genesi e che spinge all’impulso impellente di dare forma al legno per una vitale necessità di popolare il luogo e dargli la parola. A dominare il panorama è il verde del bosco diffuso che, pur nelle molte tonalità del colore uniforme, è una massa compatta che la distanza rende silenziosa. Ed è come il testimone di una staticità conclusa dall’orizzonte disegnato dall’irregolarità delle cime, quelle dei monti e quelle degli alberi.
I canaloni che precipitano in basso o s’inerpicano verso l’alto secondo il punto da cui li guardi, sono delle ferite, dei movimenti indotti dalla mente: essi ribadiscono la quiete implacabile di una corporeità ben definita, anche se rotta qua e là con le macchie del colore dissonante delle pietraie o di improvvise e brevi aperture coltivate in cui fanno crocchio improvvisati casolari che invecchiano troppo presto. L’orizzonte è un profilo che sale e scende per cadute e improvvise puntate verso il cielo senza darti un punto di riferimento o di continuità. E quando tutto questo mondo ti pare acquietato in una propria ragione esistenziale, ecco sopraggiungere il vento che arruffa le criniere degli alberi con cui sembra voglia divertirsi, giocando con la loro proverbiale fermezza che agita, quasi a voler sfidare la consistenza delle loro radici. Tra questo tentennare delle certezze scosse, tu senti finalmente che si fa strada la vita che costringe la montagna a mostrare la sua debolezza ora umanizzata dall’agitazione e le sue ferite più nascoste proprio nel fitto di un’esistenza che si sente in pericolo. E se al vento si unisce anche la pioggia, l’agitare della massa vegetale diventa una scompostezza che oscilla con il palpitare dell’angoscia che sembra salire dalle radici che sentono il dubbio di antiche certezze.
Ed è proprio osservando questo agitato saliscendi di una natura autoreferenziale che mostra le sue incertezze e i dubbi e tentenna, che l’artista scopre il varco che gli apre la possibilità di un mondo anche suo che lo può portare fuori dalla gabbia della solitudine imposta e comincia così a menare fendenti a quel mondo e lo costringe a parlare utilizzando la sua stessa materia.
Macchie di verde in prevalenza, ma anche bianche, segni di un tempo che è andato via scivolando, come i rilievi che qui non vengono dal basso, ma da lontano, non sono il parto della potenza delle viscere, ma l’accumulazione di schegge strascinate. Qui il mondo non ha la forma consapevole della saggezza che guarda lontano; il mondo vive qui in uno spazio circoscritto che si genera e si esaurisce dentro confini chiaramente segnati e, anche se volesse, non riuscirebbe ad andare oltre l’orizzonte che è sempre in alto ed escludente. E l’uomo deve rimuginare nella fissità del conchiuso il senso del sé, di un qualche percorso che gli porti un’immagine che abbia a che fare con lui, che dia alla natura una dolcezza che essa non può avere da sola, che esprima desideri e novità, una qualche forma che sia accogliente e non distaccata per condizione.
Ed è questo il luogo dove lo scultore compie il miracolo che gli permette di popolare un mondo che viene da sé, da una specie di compiacimento che lo rende sordo e insensibile alle vicende umane e al loro pulsare.
Il discorso dell’artista diventa un andare per un mondo che fa suo popolandolo con forme realizzate con la materia stessa di cui è fatto obbligandolo così ad essere, come direbbe il grande Rilke, quello che esso stesso non sa di essere e con parole che portano il nome dell’Autore.
Il laboratorio dove Florian Grott lavora, è popolato di numerose inquietudini ed è perciò come un luogo di gestazione dove si trovano alla rinfusa molti pezzi di materia lignea, di metallo e di argilla che in parte hanno preso forma e parola, e che in parte ancora maggiore attendono di diventare il senso compiuta di una cifra. E mostra quindi il disordine e il respirare di ciò che non è ancora, ma vuole diventare. Nella sala affollata ti accolgono grandi teste di bambini, femmine con seni abbondanti che sembra vogliano allattare, corpi con un qualche gesto di curiosità, in attesa di qualche risposta ed è perciò una massa interrogante. È uno spazio sottratto all’ordine della natura, al bosco compiaciuto che si guarda nella fissità di un destino già scritto, è uno spazio in cui prende forma il mondo in costante gestazione di Florian Grott, fatto di organismi in divenire, di vite che hanno l’ambizione di essere, di disordine.
Da grumi di creta ammassata, fanno capolino teste accennate e mani che vogliono afferrare o anche forme troppo concluse, come la vita che non hanno e che cercano, come tutto il mondo di questa valle. Odorano di ventre pregno, le opere, e mostrano una sessualità che ha voglia di diventare vita con i culi e i seni concepiti per stimolare il desiderio di possesso che ti guardano variamente distribuite nello spazio nel bel mezzo del quale, distaccato, si erge un Cristo che cerca di lenire, pare, qualche dolore che deve essere più in là della vita di Grott o semplicemente oltre questo luogo chiuso dall’orizzonte; è un dolore che vive nella sua anima o forse nel mondo al di là della casa e oltre il piccolo borgo che guarda dall’alto.
Minute, con una certa gioia contenuta e in forme che sembrano agitate dal vento, appaiono fra il popolo che anima l’ambiente figure di guerrieri che della guerra hanno i paramenti, ma non il contegno grave dello scontro cercato e inevitabile e sembra che ciò che manca loro è proprio il desiderio di combattere o di vincere o di sangue che accompagna: sono lì come volessero mostrare che possono difendersi se la necessità lo richiede, ma non hanno alcuna volontà di attaccare e perciò fanno parte di un qualche sogno, o di una qualche paura forse antica del profondo, o di una guerra immaginata.
E poi ci sono ancora, in questo laboratorio, le vite piccole fatte di creta e dalle tette grandi, pietre che sono corpi abbozzati e corpi ancora che con le gambe accompagnano verso le curve ben segnalate che conducono al pube. E volti allungati e bambini con le loro teste di giovani vite e figure altre in prevalenza femminili.
Quello di Grott è un sesso che attrae per generare vita, è la maternità latente e generosa che si aiuta con la concupiscenza.
E da tutti quei corpi in mostra emana l’odore forte di un desiderio che prende il posto che gli spetta in una natura altrimenti muta e indifferente che l’Artista riesce a far parlare usando la sua materia che fra le sue mani diventa materna, generatrice e accogliente.
E mentre osservi la loquacità di quelle figure, ti pare di sentire i fendenti di Floriano Grott che entra nel bosco come il vento e gli toglie le sicurezze dell’immobilità e lo fa suo con l’agitazione della vitalità che vuole possedere ed essere.
Mostra di sculture di Florian Grott, 4 – 30 luglio 2018 Galleria ITINERARTE 1046 Dorsoduro – Venezia VERNISSAGE Mercoledì 4 luglio ore 18
Servizio fotografico di Mirko Piffer

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1 commento
Bravo Franco ! Como siempre descubriendo y dándonos a conocer lo mejor.