Immigrati. UE a rischio balcanizzazione

Lo tsunami migratorio sfiderà l’esistenza stessa dell’Unione europea. Ci attendono scelte difficili e dolorose
FRANCESCO MOROSINI
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Dopo il Consiglio europeo la “questione immigrazione” resta al palo di partenza. Certo, in termini di marketing politico si può vendere il risultato che “chi sbarca in Italia (come, peraltro, in Grecia, Spagna o qualunque costa di paesi membri dell’UE) sbarca entro i confini dell’Unione medesima”; tuttavia, di fatto, gli sbarcati, profughi o migranti economici che siano, restano in carico del paese ricevente. Salvo, naturalmente, ipotesi, tutte da verificare, di forme di aiuto volontario, nondimeno difficili da ipotizzare. Qual è, allora, il senso di questa lunga notte dei leader presenti al Consiglio? Trovare una soluzione formale al problema, onde evitare il collasso immediato dell’Unione; e qui un risultato, mettendo una pezza ideologica (i confini sono europei, cioè di tutti), si è imbastito.

Nei fatti, però, poca strada si è fatta. Perché, si tratti della modifica del Trattato di Dublino (favorevole all’Italia quando la rotta era prioritariamente balcanica, e ora, che la pressione è nel Mediterraneo, per essa oneroso); oppure, della condivisione degli oneri di salvataggio, identificazione ed eventuale rimpatrio dei migranti, le risposte operative mancano. E analogo discorso vale per la spinosa questione dei cosiddetti “respingimenti secondari” (è il tema dei trasferimenti dei richiedenti asilo in Stati UE diversi da quelli di primo arrivo; e dell’eventuale loro ricollocazione forzata in questi ultimi), “problemino” che stava collassando il governo tedesco. Insomma, dopo il Consiglio l’Unione c’è ancora; ma molto balcanizzata. Ciò posto, resta ancora da scoprire (lo capiremo domenica all’incontro tra la CDU della Merkel e la bavarese CSU) l’esito vero della posta in gioco di questo Consiglio europeo: la permanenza della Merkel stessa alla cancelleria germanica.

Per questo colpisce la dura ipotesi del politologo bulgaro Ivan Krastev, direttore del Center for Liberal Strategies di Sofia, quando sottolinea come “la crisi dei migranti è l’11 settembre dell’Unione europea. Quel giorno del 2001, tutto è cambiato negli Stati Uniti”. La tesi, infatti, trattandosi di uno studioso della logica politica caratterizzante la disgregazione degli ordinamenti politici (Impero Asburgico, URSS, Iugoslavia), va considerata con grande attenzione. D’altronde, che il fenomeno migratorio (qui conta poco statuire se si tratti di percezione collettiva o di fatto empirico) stia producendo linee di faglia che attraversano l’UE da Ovest ad Est (note le posizioni dell’area di Visegrad) e da Nord a Sud (ma con divaricazioni pure all’interno di queste), costituisce un fatto politico di immediata rilevanza. Che, inevitabilmente, minaccia pure la tenuta dell’euro che, inevitabilmente, sarebbe travolto da un violento default dell’Unione.

Alla base della “questione immigrazione” (a ora circa tre milioni di individui su 650 milioni; ma va pure riconosciuto, per evitare atteggiamenti irenici, che la demografia annuncia numeri pesantemente più consistenti), c’è una maggioranza della popolazione autoctona che, sentendosi minacciata dai nuovi arrivi nei valori, dall’oggettiva mutazione e riconoscibilità del proprio spazio urbano, dalla possibile competizione nel welfare, in ragione di ciò ridefinisce l’espressione del proprio consenso politico e così terremota i sistemi partitici di riferimento; che, a loro volta, per effetto di competizione elettorale, ne mettono in campo una securitaria che, debordando dai sistemi politici nazionali, tendono a decomporre la UE.

La qualcosa, del resto, è sotto gli occhi di tutti. D’altronde, le curve demografiche nelle sponde non-UE del Mediterraneo annunciano una futura pressione demografico/migratoria dal Sud che porrà difficili dilemmi, vere e proprie scelte tragiche, alle autorità di governo. Specie a quelle italiane; particolarmente se, sovraesposte ai flussi via mare, restassero prive di alleati oltralpe. Nel breve periodo, si tratta di governare il fenomeno senza esserne travolti. Con un problema in più. Ed è che l’immigrazione cortocircuita le democrazie contrapponendone i valori (umanitario/solidaristici) al loro essere regimi politici che, in quanto tali, sono territorialmente e identitariamente chiusi.

Conseguentemente, il tema dell’integrazione, per il presente e particolarmente per il futuro, è il tema della sopravvivenza delle democrazie medesime. Difatti, l’immigrazione, se mal gestita nei tempi e nei volumi, potrebbe essere per loro – nonostante i vuoti demografici europei (ma questi non votano) – il “bacio della morte”.

Che fare, allora, nell’emergenza? Dato per scontato, naturalmente, che l’interesse nazionale è prioritario sull’umanitarismo, bisogna cercare di capire le opzioni meno (nondimeno molto) costose. La migliore, forse, sarebbe la creazione di hotspot nei punti, in Africa, di maggior transito. Fattibili? Richiederebbe una capacità di proiezione militare nei punti difficili, cioè con Stati collassati, che né l’UE, né tanto meno la sola Italia, hanno. Resterebbe la NATO, cioè gli USA; ma sono interessati ad aiutarci? E a che prezzo? Affidarli all’ONU sarebbe probabilmente la scelta peggiore, data l’ormai scarsa rilevanza in questa organizzazione dell’Occidente, figurarsi quella dell’UE: equivarrebbe a zero controllo.

Salvo, forse, che la protezione di questi hotspot, nella forma dei Caschi Blu, fosse affidata a personale delle forze armate dei paesi dell’UE e/o degli USA. Considerando queste ultime ipotesi, sarebbe accettabile per le famiglie lo scambio politico meno immigrati ma caduti in operazioni di loro contenimento?

L’alternativa potrebbe essere quella di affidare gli hotspot medesimi ai potentati locali, universalizzando il “modello Ankara”. La qualcosa implica due rischi. Il primo è la possibilità, ma già accade oggi, della creazione di veri e propri “campi inferno” producenti futuribile rancore antieuropeo in nazioni giovani e dinamiche; il secondo è la sottoposizione dell’UE, o della sola Italia qualora operasse da sola, al ricatto politico, strategico, energetico nonché economico, da parte dei governi gestori di queste situazioni. Infine, c’è il tema del “chi è” che finanzia questi hotspot. L’UE? Oppure dovrebbe toccare solo ai paesi più esposti’ per dire, Italia, Grecia e Spagna?

Vero, agire è necessario. Ma deve essere chiaro che, se nessuna delle ipotesi prese in considerazione è impossibile da attuare, purtuttavia ognuna di queste opzioni politiche, anche se su questo chi la propone tende a sorvolare, ha dei costi; alcuni ponderabili ex ante; altri no. Ovvero, che scegliere è drammatico, d’altronde, finite le farse del marketing elettorale, la politica è tragedia. Ciò vale, naturalmente, per l’attuazione di un blocco navale. Per alcuni, andrebbe fatto in Libia, ma con la collaborazione delle autorità locali. Peccato che questo nulla ha a che vedere con un blocco navale visto che, nel caso, la chiusura dei porti toccherebbe alle autorità libiche, conseguentemente, quello europeo, o italiano, più che un “blocco” al massimo sarebbe un contributo secondario a gestione, quindi interessi, altri. Viceversa, un “vero” blocco navale è un atto bellico contro le autorità del paese sottoposto ad esso. Farlo da soli, allora? Dove?

Sul fronte (si dice così perché un blocco navale è un atto di ostilità) libico? Per prudenza, meglio prima mandare truppe di terra, con armamento pesante, a tutelare i nostri impianti energetici. Possibile? Anche sì, forse. Ma col rischio di morti, cioè di costi elettorali. E se, sempre nel caso in esame, un Paese (la Francia, per dire a caso), coprendosi con l’ideologia umanitaria, decidesse di forzarlo per interessi propri, la Marina dovrebbe reagire? Analogo discorso vale se a provare a forzarlo fosse un battello di migranti (la prima idea che agli scafisti verrebbe in mente per saggiare le linee avversarie)? Dev’essere chiaro che, se è blocco navale, nel caso c’è l’ipotesi di aprire il fuoco. Fattibile? Ancora una volta sì. Ma reggerebbe un governo, in specie italiano, all’urto? Mah!

Scenari, naturalmente; ma da considerare. Quindi, la via più facile parrebbe quella degli hotspot fuori Schengen (in Nord-Africa? nei Balcani?) pagando e infilandosi nella prospettiva di essere ricattabili. Viceversa, pessima l’idea (carsica perché appare e sparisce) d’oltralpe di scaricare ancora il “costo migrazione” sui paesi di prima accoglienza: in particolare l’Italia e la Grecia. Peccato che sostanzialmente qui, di fatto se non di forma, si sia fermato il Consiglio europeo. A parte questo, comunque lo tsunami migratorio sfiderà l’esistenza stessa dell’UE. Questo il tornante, con precipizio a lato, che ci tocca. Per questo la tesi del politologo Krastev sulla dissoluzione dell’UE suona drammaticamente attuale.

 

Immigrati. UE a rischio balcanizzazione ultima modifica: 2018-06-29T20:17:03+02:00 da FRANCESCO MOROSINI
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