Dove va il cinema? Domanda ricorrente, un tormentone e dunque, c’è da credere, senza definitive risposte. Noi stessi, tempo fa, titolavamo così – ma senza punto interrogativo – un volumetto di riflessioni ispirate al superamento, negli anni Novanta del secolo scorso, dell’ennesima crisi con una nuova offensiva del cinema americano al box office e l’avvento anche in Italia dei multiplex (“Dove va il cinema. Critica e mercato nell’era dei multiplex”, Bulzoni, 2000). Per un attimo – una stagione – ci si era illusi che la crescita di spettatori al botteghino fosse per l’appunto dipesa dai nuovi contenitori d’offerta, salvo poi scoprire che era stata opera del Titanic, uno di quei titoli imperdibili che ogni tanto fanno la differenza, mentre i multiplex – liberalizzati senza “paletti” – sarebbero andati di lì a poco a desertificare l’offerta filmica in città. Stessa musica per Checco Zalone, capace due anni fa di far impennare gli incassi con “Quo vado?”, una crescita di spettatori ben oltre la soglia fatidica dei cento milioni annui di biglietti venduti. Poi, il consueto ritorno alla routine, restando quella soglia, da un ventennio e più a questa parte, la dimensione strutturale del consumo filmico italiano nelle sale: sopra i cento milioni un successo, sotto la catastrofe, a seconda dei discostamenti. E con un dubbio talvolta atroce: per quanto tempo ancorà reggerà quella soglia?
Quando penso cinema, diceva Roland Barthes, il pensiero va alla sala prima ancora che ai film. Il rito, chiaramente, e tutto ciò che esso si porta appresso in termini di socialità ed esperienza, pilastro della cultura di massa novecentesca e dell’inestricabile matassa delle sue doppiezze: arte e industria, sogni e illusioni, espressione e comunicazione, pratiche alte e basse, capi d’opera e trash, i singoli spettatori e il pubblico, quest’ultimo entità astratta, quasi totemica eppure tangibilissima quando dall’estetica si passa all’economia. La quale economia continua certo a riconoscere una sua centralità al sistema delle sale cinematografiche, dove in prima battuta si gioca la “reputazione” dei film, ma in maniera assai meno esaustiva che in passato. Televisione, home video, pay tv e on demand, telefonini, tablet, Netflix: la graduale e sempre più estesa pluralità delle forme di fruizione ha reso irreversibile l’arretramento della sala su segmenti di consumo che se non sono ancora di nicchia poco ci manca, contribuendo non poco a modificare profondamente le forme stesse di narrazione e figurazione del linguaggio filmico tradizionalmente inteso.
Fra qualche settimana sapremo quali film sfileranno alla prossima Mostra del Cinema di Venezia, settantacinquesima edizione, il festival più antico e longevo, primi vagiti nel 1932, sulla terrazza dell’Excelsior, con tanto di esposizione inevitabilmente autocelebrativa al Casinò (ovviamente c’è modo e modo di celebrare, e la sobrietà del direttore Alberto Barbera da questo punto di vista è una garanzia). C’è da credere che si tornerà anche in quella occasione a parlare di Netflix,la piattaforma on line messa al bando dal festival di Cannes e viceversa accolta con i suoi prodotti a Venezia. Nodo della discordia la distribuzione, che sulla Croisette s’intende riferita prioritariamente alle sale mentre per il pensiero”laico” in voga al Lido può tranquillamente destinarsi alla rete, lì celebrando in tranquillità la sua “prima visione”. Opinioni, ciascuno libero di farsi la sua, fermo restando che sono centinaia i titoli che sfilano ai festival maturando in quelle sedi la loro prima e anche ultima visione, poi regolarmente ignorati dalla distribuzione cinematografica, mentre il sistema Netflix – pur esclusivo e a pagamento – una circolazione delle opere pur sempre la garantisce, arruolando sul versante oggi gettonatissimo delle serie autori che mai ne farebbero una questione ideologica. Ieri Sorrentino, domani Woody Allen, un giorno nel circuito delle “vecchie” sale e il giorno dopo magari su internet. Mentre la piattaforma stessa va mutando pelle: ieri soltanto distribuzione, oggi anche produzione. E trovando sempre nuovi adepti: qui da noi il vicepremier Di Maio, che nei giorni scorsi ha auspicato la nascita di una piattaforma tipo Netflix anche in Italia, per liberare nuove energie e fors’anche per scardinare il duopolio imperfetto Rai-Mediaset (si parlava delle nuove nomine in viale Mazzini, infatti).
Si diceva: dove va il cinema? Dove gli pare, viene da rispondere. E dove può. I quasi seicento titoli formalmente distribuiti nel 2017 sono uno sproposito in rapporto agli schermi “industriali” a disposizione nel nostro paese, circa tremila secondo l’ultimo censimento di qualche anno fa. E si consideri che se nei multiplex faticano a trovar posto i film d’essai, le dinamiche di programmazione (anche delle sale d’essai) sono spesso rigidamente controllate su scala regionale o interregionale da network locali di noleggio rigidamente orientati a favorire i prodotti di cui sono mandatari. Al netto di eventi e classici, una bella novità, il digitale, che avrebbe dovuto contribuire ad una maggiore diversificazione dell’offerta, si è limitato a ratificare le leggi di mercato esistenti: corsia preferenziale d’uscita per i film delle distribuzioni più forti e garantite, semaforo rosso (o tutt’al più qualche feriale) per gli indipendenti; tirannia degli incassi al primo weekend e a casa chi fa meno, specie quando non è sorretto da vecchie e nuove majors, con buona pace di quel lento assorbimento da passaparola cui ambirebbero le opere più difficili, sperimentali e magari anche politicamente esposte.
Dove il digitale non ha tradito è piuttosto sul versante produttivo, consentendo modalità di lavorazione e di edizione assai più economiche e competitive che in passato. Ma che farsene dei film in assenza di distribuzione? Steven Soderbergh, che ha girato il suo ultimo film, Unsane, con lo smartphone, non faticherà a trovare distribuzione. Provateci voi e poi fatemi sapere. Per cui, ben vengano le alternative, da Netflix allo street cinema. E già che ci siamo perchè non pensare a circuiti alternativi di distribuzione? Il riscatto delle sale può ben passare anche per una loro diversa concezione d’uso. Valore d’uso o di scambio? D’accordo, l’avete già sentita ma non fate finta di niente…

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