Ebbene sì, non occorre sposare le tesi sovraniste che infestano l’Europa per immaginare (pasolinianamente “sapere”) come dietro o a fianco dei processi migratori si muovano anche organizzazioni criminali intente a lucrare abbondantemente sulla pelle dei migranti. Prima, durante e dopo, non senza implicazioni “istituzionali”. E non è affatto una buona ragione per criminalizzare le organizzazioni umanitarie, che restano nel loro insieme un baluardo di solidarietà in un’epoca di arduo riconoscimento degli elementari diritti civili.
Deve pensarla così anche lo scrittore francese Michel Bussi, sulla cui opera abbiamo già avuto modo di soffermarci. Su questi temi, le fitte trame de Il quaderno rosso, suo più recente romanzo, in libreria per le edizioni e/o, con traduzione di Alberto Bracci Testasecca. Il titolo italiano, che non è letterale (in francese On la trouvait plutôt jolie), va al sodo: un diario con la copertina per l’appunto rossa, nascosto sotto il materasso, a conservare i segreti, il travagliato vissuto e le tribolazioni di Leyli Maal, madre di tre figli, maliana peul, che vive e lavora, finalmente “regolare”, alla periferia di Marsiglia. In un appartamentino, peraltro, ed è questo è il suo cruccio.
Avrebbe bisogno di più stanze per i figli Bamby, Alpha e Tidiane, avuti con uomini differenti in momenti difficili della sua esistenza. Cosa non farebbe per loro! Mica facile, però, con la burocrazia delle case popolari. Ancora due parole su questi figli. Bamby, la maggiore, è di una bellezza folgorante, tutta sua madre ma con la disinvoltura cosmopolita dei tempi nuovi, istruita, astuta, una principessa africana. Alpha è un ragazzotto di due metri, che non si tira mai indietro, borderline anche se di cuore. Tidiane, infine, è ancora un bambino, innamoratissimo degli idoli calcistici e sempre attaccato al suo pallone Morocco 2015, coniato per una Coppa d’Africa poi sfumata. Sono molto legati e solidali, i fratelli. E la madre, fra tante traversie, ne va fiera.
Mentre Leyli lentamente dipana la sua storia, affidandone stralci agli uomini che le capita di incontrare, chi in buona fede (il ciarliero e solidale direttore dell’Ibis, presso cui fa le pulizie) e chi no (un vicino di casa destrorso, sbucato da chissà dove), un paio di strani omicidi punteggiano il racconto. Attratti in camere d’albergo “esotiche” della catena Red Corner da un’affascinante ragazza di colore, ci lasciano la pelle due uomini, riconducibili all’organizzazione umanitaria Vogelzug: esangui sui rispettivi letti, le vene tagliate, preventivamente sottoposti a un curioso prelievo del sangue. Tutto nel breve giro di qualche giorno. A indagare, una stramba coppia di detective: l’attempato Petar Velika, profugo jugoslavo dai tempi di Tito, e il giovane Julo Flores, magari non così esperto come il collega ma alla prova dei fatti assai più vispo nel cercare e trovare le connessioni. Anche lui irresistibilmente attratto dagli occhi dell’assassina, rilevati da una telecamera nei corridoi dell’albergo, quasi offerti in visione…
E già che ci siamo – pensa Flores – perché non saperne di più sul conto della Vogelzug? L’organismo ha sede proprio a Marsiglia, gran patron tale Jourdain Blanc-Martin, che fa tanto nobile lignaggio nonostante le ben più modeste origini, villa faraonica sul golfo, a due passi da quelle stesse case popolari in cui vive Leyli e dove pure lui è nato e cresciuto, figlio di una sindacalista votata a tutte le battaglie possibili e immaginabili: per l’emancipazione del proletariato, si diceva una volta. Altri tempi. Ora il “filantropo”, ottimamente accreditato presso Frontex, l’agenzia europea preposta al controllo e alla gestione delle frontiere esterne allo spazio di Schengen, veleggia tra solidarietà e traffici, uomo senza scrupoli, i valori – se c’erano – persi per strada. I sospetti sul suo conto non mancano ma alla prova dei fatti rimane intoccabile, anche se quegli strani omicidi (un terzo s’approssima, con le medesime modalità) suonano come ben più che un campanello d’allarme.

Michel Bussi
Storia e geografia, materie ormai snobbate dai radar scolastici. Si è soliti dire che la prima è assai più permeabile della seconda. Più facile – revisionismi e negazionismi purtroppo insegnano – modificare la “narrazione” di fatti, personaggi ed eventi a proprio uso e consumo che rimuovere mari e montagne, sebbene anche la declinazione “politica” delle carte geografiche vada mutando. Sono considerazioni elementari che Bussi, ultimamente specializzato in geografia elettorale (cangiante anche in Francia, dove il rosso ha fatto posto al nero nelle periferie urbane e nelle roccaforti del comunismo che fu), certamente non ignora. E con la globalizzazione neanche la geografia se la passa troppo bene, cosicché trescare con l’indistinto dei luoghi (o non luoghi) per spiazzare il lettore diventa un giochetto.
Ségou, il villaggio d’origine di Leyli, e poi Rabat, Marsiglia, Beirut, l’interminabile deserto del Sahara e le due sponde – più definite ma in fondo intercambiabili – del Mediterraneo: alcuni luoghi del racconto giocano a nascondino ed è magistrale l’autore nel mescolare una dimensione metaspaziale persino più sorprendente del plot, che se a un certo punto si fa prevedibile, non rinuncia al rincorrersi dei colpi di scena. Personaggi in cerca di verità, di giustizia o soltanto di un po’ di pace; altri non sono quel che dicono di essere e continuano a giocare sporco. Nel libretto rosso c’è tutto, basta metterci gli occhi. Qualcuno, all’insaputa di Leyli, evidentemente l’ha fatto, tirandone le conseguenze.
Dice Bussi a proposito di questo suo romanzo (Angelo Deiana in Tabook.it):
Il mondo è una vetrina, grazie alla rete e alla comunicazione. Ma poi ha barriere nazionali. Le due cose sono inconciliabili: mi interessava questo paradosso. Gli occidentali credono che, se non si barricano, tutta l’Africa sbarcherà in Occidente. Che stupida paura! La stragrande maggioranza della gente vuole rimanere dov’è.
Mondo globalizzato, frontiere invalicabili. Egoismo, paura ed etnocentrismi a profusione. La sfrontatezza di piegare le migrazioni alle leggi del business malavitoso, come s’è visto. E magari quel famigerato “aiutiamoli a casa loro”, che va maledettamente di moda. Così, tanto per dire, giusto perché poi non si paga dazio. E d’altra parte è risaputo: quando l’Occidente “esporta” in quei paesi, generalmente son dolori. Ne sa ben qualcosa anche la povera Leyli.

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