Fa di certo notizia la presa di posizione dell’attuale ministro della difesa, Elisabetta Trenta, che nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano Avvenire e un proprio intervento sul blog delle Stelle, si è espressa a favore della nascita di un sindacato che tuteli i diritti dei lavoratori delle forze armate.
Senza in alcun modo sminuire la novità del fatto, non va sottaciuto che esso s’inquadra nella sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente fondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 1475 del Codice dell’ordinamento militare (il decreto legislativo n. 66 del 2010) nella parte in cui vieta ai militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale.
Tutto è cominciato con un ricorso presentato dal finanziere Francesco Solinas contro un provvedimento che gli negava
l’autorizzazione a costituire un’associazione a carattere sindacale fra il personale dipendente del ministero della difesa e/o del ministero dell’economia e delle finanze, o in ogni caso, ad aderire ad altre associazioni sindacali esistenti.
Se il divieto di adesione ad altre sigle sindacali comunque resta, la sentenza della Consulta ha stabilito che i militari hanno il diritto di avere un proprio sindacato, superando quindi in qualche modo le rappresentanze che erano state riconosciute dalla legge 11 luglio 1978 n. 382. Con la quale allora il legislatore volle dare una risposta alle richieste di democratizzazione e di sindacalizzazione delle forze armate che provenivano dai movimenti dei cosiddetti militari democratici.
Per alcuni corpi, come nel caso di Polizia e Guardia di Finanza, esse si spingevano fino a chiederne la sindacalizzazione e smilitarizzazione proprio per essere maggiormente funzionali e efficienti nei compiti loro assegnati. Se per la Polizia ciò andò a buon fine con la nascita del sindacato inizialmente unitario, questo non fu il destino della Guardia di Finanza, unico caso al mondo con l’Ecuador, che continua a essere corpo militare per quanto dedicato alla lotta all’evasione fiscale.
In una stagione che ha messo al centro la difesa del lavoro, delle libertà sindacali e politiche negli ambiti più disparati della nostra società, quell’aria nuova che chiedeva la trasformazione del nostro paese in senso moderno ha raggiunto allora anche i corpi separati dello stato. Non a caso essi furono partecipi di quella lunga fase politica che si era aperta con il ’68 e si sarebbe conclusa, dopo un decennio, con il rapimento di Aldo Moro e la sconfitta del Pci nel referendum contro il decreto di San Valentino, con il quale Bettino Craxi tagliò quattro punti di scala mobile.
Per quei corpi separati ci fu allora il riconoscimento degli organi di rappresentanza a livello di base, intermedio e centrale, quale risposta legislativa su cui anche le forze di sinistra e sindacali del tempo convennero come compromesso necessario e, auspicabilmente, transitorio. Una transitorietà che è durata quasi un quarantennio che ora con la sentenza della Consulta e con la presa di posizione del ministro a favore della tutela dei diritti, e quindi della sindacalizzazione, pare in qualche misura essere destinata ad essere superata.
Spetta ora al parlamento tracciare i confini del nuovo diritto, sul quale Elisabetta Trenta auspica si possa in tempi brevi raggiungere un’intesa larga che unisca forze di governo e minoranze, alla cui ricerca ha comunque assicurato il pieno appoggio del suo dicastero. Non potrà esistere il diritto di sciopero, ma ciò non toglie che
un sindacato sarà una conquista perché un soggetto esterno alla Difesa saprà rappresentare in maniera autonoma e indipendente i nostri militari. Voglio che si apra un grande dibattito sui diritti. Che vengano ascoltati militari e Stati maggiori. Però si cominci. Subito e con grande decisione,
ha affermato il ministro.
Essa, per fare un esempio, è propugnata già nel ’77 dal capo di stato maggiore della Finanza Donato Loprete in un documento interno intitolato “Aspirazioni del personale” inviato a tutto il corpo. Erano appunto gli anni dei movimenti democratici dei militari, e Loprete raccomandava di non aspettare che il problema fosse imposto dall’esterno, e pur rimanendo militari, osservava che ”con la sindacalizzazione può ottenersi di più di quanto oggi si ottiene nell’interesse dell’istituzione e individuale.” E chiedeva che fossero estese ai militari le conquiste di tutti gli altri lavoratori. Chiaro no?
Quello che però allora i movimenti democratici dei militari propugnavano, e a Loprete di sicuro non piaceva, era non solo la tutela dei loro diritti, battaglia che può trovare molti d’accordo e su cui si spende giustamente anche l’attuale ministro. Ma anche un’apertura sostanziale di questi corpi alla democrazia che li rendesse trasparenti, efficienti, in grado di superare la separatezza che li distanzia dalla società civile, e che li renda quindi degni di una nazione avanzata come dovrebbe essere il nostro paese. Il che, se si guarda bene, non corrisponderebbe poi nient’altro che al rafforzamento delle nostre istituzioni democratiche.
Un discorso che qui potrebbe farsi lungo, e magari qualcuno anche storcere il naso, dovendo affrontare l’utilità o l’incongruità dell’aver militarizzato recentemente il corpo forestale, per esempio. O il senso di mantenere con le stellette la Guardia di Finanza, il cui scopo istituzionale non è di certo quello, oggigiorno, di fare la lotta all’evasione fiscale a bordo di un autoblindo o sparando con i cannoni.
Se da una parte va riconosciuto quindi il merito al ministro per sensibilità e apertura, compete al legislatore, come del resto impone la sentenza della Corte costituzionale, il compito di affrontare il tema e gli ambiti del nascente sindacato. Tenendo come bussola non solo l’obbligo di dare possibilità di tutela dei diritti di chi nelle forze armate opera, ma anche il diritto generale della società italiana di poter contare su istituzioni efficienti e trasparenti, ovvero pilastri della nostra democrazia.

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