Grande incognita della politica sono i limiti del cambiamento. Fin dove può arrivare la volontà politica prima di scontrarsi contro la dura realtà? In ogni momento storico le relazioni di potere e la mentalità dominante stabiliscono i margini entro i quali il cambiamento è possibile. I grandi leader riescono ad ampliare questi margini, convertendo in reali opzioni che sembravano puramente immaginarie. Tuttavia, anche per i grandi leader, ci sono opzioni politicamente impercorribili.
Così, Ignacio Sánchez-Cuenca, sul quotidiano La Vanguardia, affronta la questione catalana dell’indipendenza impossibile e, forse proprio per questo, diventata il centro della crisi politica spagnola degli ultimi anni. L’articolo è intitolato “Berlinguer in Catalogna”. Cosa c’entra Berlinguer? Vediamo.
Sánchez-Cuenca è un politologo, direttore dell’Instituto Juan March de Ciencias Sociales dell’Università Carlos III di Madrid, dove insegna anche Scienze politiche. È autore, tra l’altro, del libro sulla crisi catalana “La confusión nacional”, lavoro a quattro mani con lo scrittore Jordi Amat.
La questione catalana, lontano dalle esigenze della cronaca politica, pone temi importanti. Stato della democrazia, patto costituzionale, responsabilità, e irresponsabilità, delle élite, politiche, finanziarie e dell’informazione. Il politologo non affronta in questo intervento i tanti affluenti che, da Barcellona come da Madrid, hanno portato acqua all’esondazione separatista ma pone un problema di teoria politica: fino a che punto la volontà politica può prescindere dalla realtà nell’elaborazione delle sue strategie?
Per sviluppare l’argomentazione, Sánchez-Cuenca ricorda diversi momenti storici in cui volontà politica e realtà si sono scontrate, con esiti anche drammatici. La Primavera cecoslovacca di Dubček, l’arrivo al potere di Mitterrand nel 1981, lo scontro tra Alexis Tsipras e l’Ue, sono diversi esempi che propone. Il primo a rappresentare come la non corretta valutazione della realtà abbia portato a una sconfitta, gli altri due a esemplificare, in modi diversi, la costrizione delle idee al confronto con la realtà. In Cecoslovacchia la volontà popolare di un comunismo democratico si infranse contro le esigenze del Patto di Varsavia e della leadership sovietica. Mitterrand venne eletto con un programma molto di sinistra e governò invece applicando una gestione delle ricette neoliberiste che stavano conquistando l’Europa e il mondo. Tsipras, dopo il tentativo del braccio di ferro con l’Ue, scelse la strada, difficile e responsabile, del tentativo di diminuire il danno per i greci delle ricette del risanamento, da lui avversate, restando alla guida del paese.
Sánchez-Cuenca vede in un episodio preciso della storia recente la massima rappresentazione dello scontro tra idea e realtà: il Cile di Salvador Allende. E, nell’elaborazione che di quell’esperienza fa il comunismo italiano di Enrico Berlinguer, la principale lezione appresa da una politica responsabile rispetto al confronto con la realtà. Quale realtà? Quella dei rapporti reali di forza, certamente, ma anche quella della scelta definitiva del campo in cui agire la propria proposta politica, nel caso del Pci, quello della democrazia rappresentativa. E di cosa sia una maggioranza, e cosa possa fare, in quel contesto.
Il politologo riassume dunque l’elaborazione che il leader comunista fece di quell’esperienza – espressa nei tre articoli che, nel settembre-ottobre 1973, si susseguirono all’indomani del golpe di Pinochet sulle colonne di Rinascita, il settimanale fondato da Palmiro Togliatti. Riflettendo sull’esito drammatico dell’esperienza cilena, inserendola nel contesto di strategie reazionarie portate avanti a colpi di bombe e tentativi di golpe che insanguinavano l’Italia di allora, Berlinguer applicò l’elaborazione gramsciana di egemonia sociale. Allende aveva vinto le elezioni ma non aveva conquistato l’egemonia. Nel terzo articolo della serie, “Alleanze sociali e schieramenti politici”, Belinguer scrisse:
sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento. Ecco perché noi parliamo non di una “alternativa di sinistra” ma di una “alternativa democratica” e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.
In questo passaggio, interamente riportato da Sánchez-Cuenca, ci sono le basi dell’elaborazione che porterà Berlinguer e Aldo Moro al compromesso storico, visione che univa i due grandi statisti della fine del Novecento italiano – non ce ne vogliano gli ammiratori di Craxi o De Mita, grandi leader sì ma che condussero le loro navi nelle acque di missioni di piccolo cabotaggio – nella convinta difesa degli interessi nazionali e fondava la visione europeista come rottura della gabbia bipolare che imprigionava il mondo e il nostro paese prima di tutto.
E la Catalogna, che c’entra? C’entra perché il politologo, sorvolando sulla genesi della deriva indipendentista e di quella della contrapposizione centralista, ritiene che la politica catalana debba guardare a quell’elaborazione, alle idee che Enrico Berlinguer sviluppò davanti allo scontro tra volontà politica e realtà. Che se pure riuscisse a conquistare il 51 per cento il catalanismo ex moderato e ora indipendentista debba fare i conti col fatto che quella maggioranza non basta, perché ci sono e ci saranno sempre due Catalogne. Sánchez-Cuenca proietta il confronto tra fautori dell’irriformabilità delle democrazie liberali e sostenitori del cambiamento di lungo periodo tutto agito nei confini della democrazia rappresentativa, esemplificato nel confronto tra lotta armata e strada democratica, sul quadro politico catalano. E suggerisce che la politica catalana, quella indipendentista in particolare, debba prendere atto dell’impercorribilità della strada, a prescindere dal fatto che sia giusta o meno, per imboccare la via riformista, cercando un compromesso storico.
A Sánchez-Cuenca risponde Vicenç Navarro, sociologo e politologo di grande percorso accademico ma dall’ampia esperienza di politica diretta. Lo fa in un bello e argomentato intervento su Público, altra bella realtà del giornalismo on-line spagnolo. Navarro fu grande amico di Giovanni Berlinguer, si è occupato molto di sanità e fu consulente del governo Cileno di Unidad popular proprio nell’elaborazione della riforma sanitaria – cancellata dal golpe che applicò al Cile le ricette dei Chicago boys che ancora imperversano nel paese. Il Cile ha ritrovato democrazia ma non lo stato sociale.
Navarro consce bene, dunque, le realtà di cui parlano e non ha nulla da dire sulla genesi del pensiero berlingueriano rispetto ai fatti cileni e all’elaborazione del compromesso storico, che arricchisce con episodi vividi, come quando racconta il canto corale dell’Internazionale su toni da musica gregoriana, esempio di adesione fedele ma autoironica al compromesso storico da parte dei ferrovieri della Cgil. Tiene però a sottolineare le differenze, non solo quelle storiche, evidenti, ma soprattutto politiche.
In Catalogna – scrive – il partito egemone del blocco indipendentista è “la destra di sempre”, il pujolismo (dal nome del leader storico del catalanismo democratico, Jordi Pujol – NdR) che è stato responsabile delle politiche neoliberali [votate nel parlamento spagnolo col Pp] che hanno danneggiato ampiamente le classi popolari e lavoratrici catalane. È difficile che si stabilisca un’alleanza tra il blocco indipendentista attuale, diretto dalla destra, e le forze politiche storicamente radicate nella classe lavoratrice, come i socialisti catalani, né con quelle forze che i lavoratori considerano erroneamente che difendano i loro interessi, come Ciudadanos. I quartieri operai – prosegue spiegando le apparenti contraddizioni di alcuni risultati elettorali – considerano il Pp come il loro maggiore avversario in Spagna.
Per questo votano En Comú Podem nelle elezioni nazionali ma nelle autonomiche “l’avversario di sempre, il pujolismo, viene ostacolato col voto a Ciudadanos, visto come il più ostile” all’establishment locale, avendo smarrito il socialismo catalano l’aura alternativa che lo caratterizzava.
È difficile che possa avvenire un compromesso storico, non essendoci una sinistra (cioè con politiche distinte da quelle neoliberali) a guidare il processo indipendentista, argomenta Navarro. Il tema nazionale ha occultato l’importanza del tema sociale – prosegue Navarro – ma questo esiste ancora e condiziona come la questione nazionale si riproduce e persiste.
Il dominio del tema nazionale – prosegue -, egemonizzato in Spagna dal Partido popular (gli eredi delle forze che controllarono lo stato dittatoriale) e in Catalogna dal pujolismo (che ha controllato le istituzioni catalane per la gran parte della democrazia), ha reso difficile la risoluzione dell’enorme questione sociale. Questa è la realtà poco discussa nei maggiori mezzi di informazione e persuasione del paese.
Al di là dei meriti dei ragionamenti e degli approcci – chi scrive ritiene che Sánchez-Cuenca tenti l’atto, volontaristico ma anche estremamente politico, di favorire l’individuazione di una via d’uscita alla classe politica catalana prigioniera del cul de sac indipendentista, mentre Navarro applichi con maggior disincanto strumenti di analisi della realtà meno volontaristici e più cinici, dando all’analisi tutta la dignità politica che le appartiene – resta un fondo di amarezza nel leggere il dibattito tra i due politologi. La coscienza che pensiero e prassi politica italiane del novecento siano vissuti come una risorsa, come un baule di strumenti possibili da applicare, non pedissequamente, alla realtà contemporanea, ma che sia così per l’Europa ma non per noi, immemori di quanto accadde non solo ottant’anni fa ma anche dei decenni da poco trascorsi. Che la rottamazione come slogan sia solo l’ultimo tassello di una rottamazione pervicacemente portata avanti dagli eredi stessi di quelle idee, elaborazioni e prassi politiche.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!