Madiba, i cent’anni dalla nascita

Il 18 luglio si celebrerà il centenario della nascita di Nelson Mandela. Un’occasione per riflettere sul contributo sudafricano al dibattito sulla pace: non c’è pace senza giustizia e perdono.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace. In Siria, in Iraq, e cambiando latitudine, ma non l’indicibile orrore, in Cecenia. E se è vero, come credo che sia che è la sconfitta della sinistra, in tutte le sue declinazioni, che segna il presente, non solo in Italia, anzitutto una sconfitta culturale, l’affermarsi di una idea di pace senza aggettivi ne è una delle espressioni più devastanti. Di fronte alla quale, non c’è ritocco che regga. 

È un salto di mentalità, la sfida da affrontare. Una “rivoluzione” culturale prim’ancora che politica. Dalla guerra giusta alla pace giusta. La pace non è assenza di guerra né può ridursi, come spesso e su vari quadranti mondiali è stato, alla ratifica dei rapporti di forza imposti sul campo di battaglia. La pace non è, o non dovrebbe essere, sinonimo di resa. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura.

Credo che la pace sia instabile laddove agli esseri umani è proibito esprimersi, è tolto il diritto di parlare liberamente o venerare il dio prescelto, viene impedito di scegliersi i propri governanti o di riunirsi senza timori per le conseguenze. Promuovere i diritti umani non significa soltanto esortare e caldeggiare. Ogni tanto a ciò si deve aggiungere un’azione diplomatica diligente e precisa. So che impegnarsi a trattare con regimi repressivi significa privarsi della purezza appagante dell’indignazione. Ma so anche che le sanzioni che non hanno seguito, le condanne senza discussione, possono implicare un paralizzante status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada nuova, a meno di avere la scelta di una via di uscita, una porta aperta.

È una parte del discorso che l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, pronunciò a Oslo, il 10 dicembre 2009, in occasione del ritiro del premio Nobel per la pace. Non è questa l’occasione per valutare quanto, nei suoi due mandati presidenziali, Obama sia stato fedele a quest’importante riflessione. Fatto è che quelli che sono stati percepiti come i due grandi leader globali dei tempi attuali, Obama e papa Francesco, si siano cimentati con il tema epocale della pace giusta. Che per essere tale deve intervenire e incidere sulle cause che sono alla base del proliferare di crisi, conflitti regionali, disastri ambientali, crescita delle diseguaglianze tra i pochi che posseggono ricchezza e i sud del mondo che ne sono espropriati.

Nelson Mandela

Riflettendo su un’intervista di Papa Francesco sul tema della pace giusta, Pierangelo Sequeri annota su Avvenire:

Non si tratta solo di portar fuori il tema della legittima difesa dal contenitore semantico obsoleto della guerra giusta. Si tratta anche di non lasciare spazio ad un pacifismo generico e retorico dello ‘stare in pace’. L’orrore della normalità con la quale si praticano la crudeltà (‘oggi i bambini non contano!’) e la tortura (col pretesto della sicurezza e della deterrenza), indica chiaramente che la soglia è superata. E nessuno può, con nessun pretesto, voltarsi dall’altra parte. L’umanesimo della pace giusta non si sottrae all’impegno di un difficile discernimento, alla fatica di una vigilanza incessante, al sacrificio generoso della presenza e della testimonianza che rischiano di persona, per attestare la persuasività e l’efficacia del perseguimento di mezzi alternativi alla guerra.

Una pace giusta non contempla una verità assoluta, che nella Storia coincide il più delle volte con quella dei vincitori. È “giusta” una pace che riconosce i diritti dell’altro da sé. E che valorizza la parola “compromesso”.

Scrive in proposito il grande scrittore israeliano Amos Oz:

Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte.

Una pace giusta parte da qui. Dalla lungimiranza del più forte, del generale che ha combattuto mille battaglie e proprio per questo è consapevole che la battaglia più difficile da vincere è quella per una pace giusta. Questa è stata la tragica grandezza di Yitzhak Rabin, il ministro della difesa durante la prima Intifada che scandalizzò il mondo per aver giustificato i soldati israeliani che reprimevano brutalmente i giovani palestinesi lanciatori di pietre; ma era sempre il generale Rabin, diventato primo ministro d’Israele, a sbalordire il mondo accettando di stringere la mano al nemico di sempre, Yasser Arafat, perché la pace si fa con il nemico e con lui si apre un cammino di speranza. Rischiando tutto, compresa la propria vita.

Perché la pace giusta non nasce da poeti o sognatori, ma da chi ha conosciuto le asprezze e gli orrori della guerra ed ha saputo non restarne succube. La pace giusta ha bisogno di una visione che vada oltre la contingenza di un angusto presente, di leader che sappiano andare controcorrente, non piegandosi all’umore del momento, finendo per cavalcare insicurezze o alimentando sogni di grandezza, ma avendo chiara la meta da perseguire e i valori da preservare.

La pace vera è quella che non confonde la giustizia con la vendetta. È la pace di un grande della storia: Nelson Mandela. Ricordo ancora, con emozione, l’intervista che mi concesse il compagno di una vita di Mandela nella lotta al regime dell’apartheid: Desmond Tutu, che con Madiba condivise anche il nobel per la pace (nel 1984 Tutu, nel 1993 Mandela).

Desmond Tutu

Il 18 luglio si celebrerà il centenario della nascita di Nelson Mandela. In quell’intervista, quando gli chiesi cosa fece grande Nelson Mandela, Desmond Tutu rispose così:

Non sono pochi nella storia a essere ricordati come vincitori. C’è chi ha condotto rivoluzioni, chi ha sconfitto il nemico sul campo. Ma in pochi hanno saputo coniugare vittoria e giustizia. Nelson è tra questi pochi. Per questo, soprattutto per questo, è stato un grande. Non solo per come ha combattuto ma per come ha saputo vincere. Con lo spirito di giustizia, mai di vendetta. Non è da tutti riuscire ad essere, nell’arco di una vita, il leader amato, osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, a essere visto, accettato, come il presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle, dell’appartenenza etnica o religiosa. Nelson Mandela c’è riuscito.

E ancora:

Con Madiba non ho condiviso solo la lotta contro il regime dell’apartheid. Ciò che ci ha ancor più legati è stata l’idea, dalla quale è nata la Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana (istituita nel 1995 dall’allora presidente Nelson Mandela e presieduta da Tutu, ndr) è che fare giustizia significa risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. La riconciliazione non è qualcosa che ti mette comodo, non ti permette di fare finta che le cose siano diverse da come sono, la riconciliazione basata sulla falsità o sulla mistificazione della realtà non è vera riconciliazione e non può durare. Sono sempre stato convinto, e ciò non vale solo per il Sudafrica, che senza perdono non c’è futuro.

È questa la grandezza di una pace giusta e dei suoi promotori. È nell’immedesimarsi nel dolore e nella speranza, nelle rinunce e nelle aspettative del nemico che non è più tale. La pace giusta non può essere imposta dall’esterno, non la si esporta con le armi; essa ha bisogno di consapevolezza, di conoscenza, di un dialogo dal basso, del saper ascoltare e non limitarsi a sentire.

Se ci guardiamo attorno, limitandoci ad annotare le balbettanti esternazioni dei grandi della terra, dovremmo concludere che non c’è seme di una pace giusta su questa terra. Ma se si scava più in profondità, se si guarda ai movimenti carsici che agiscono dentro le società, che resistono a regimi brutali in nome di principi universali, allora il quadro si fa meno scuro, e la speranza torna a fiorire.

La pace giusta non è una utopia, ma un sano principio di realtà. È un work in progress che unisce idealità e concretezza, intervento internazionale e crescita di esperienze, e professionalità, interne ai vari paesi d’intervento. La pace giusta è anche questo. E si ripropone, drammaticamente, nell’approccio al tema delle migrazioni.

Dire immigrazione significa, infatti, accendere un faro sulla disuguale distribuzione della ricchezza. In effetti, ben il 95 per cento delle strutture produttive è posseduto da un sesto della popolazione mondiale. Con un reddito pro capite di circa venti volte inferiore a quello dell’Ue, l’Africa subsahariana dispone solo del 2,1 per cento della ricchezza mondiale.

Resta ignorata, peraltro, la crisi alimentare gravissima che sta colpendo diversi paesi africani, in particolare il Sud Sudan, il bacino del Lago Ciad e il Corno d’Africa, tra le maggiori zone di provenienza di profughi e rifugiati nel nostro paese. Qui, a causa degli effetti combinati di una grave siccità e dei conflitti che insanguinano alcuni paesi (Sud Sudan e Somalia in particolare), quasi trenta milioni di persone sono sull’orlo della fame. Hanno perso le loro fonti di sostentamento principali, bestiame ed agricoltura, perché non c’erano più acqua e cibo sufficienti, hanno attraversato a piedi intere regioni aride sfuggendo a Boko Haram o ad Al Shebaab o semplicemente cercando acqua per le proprie mandrie. Sono affamati, disidratati e senza prospettive, i bambini muoiono di diarrea. Sono due milioni quelli colpiti dalla fame, che rischiano di morire se non si interviene immediatamente.

Nelson Mandela e Desmond Tutu

Ed è impressionante notare come vi sia una stretta correlazione tra diversi dei paesi “saccheggiati” e quelli da cui provengono la maggioranza dei migranti sbarcati in questi giorni in Italia: Congo, Nigeria, Ghana, Mali, Gambia, Niger, Guinea, Sudan, Senegal, Bangladesh, Camerun. Dal Corno d’Africa fuggono eritrei, etiopi, somali e sudanesi.

Il caso degli eritrei è forse quello più eclatante. Secondo l’Unhcr ogni mese tremila eritrei lasciano il proprio paese. Fuggono da una dittatura spietata, la stessa Onu in un recente (durissimo) rapporto, definisce l’Eritrea come “la Corea del Nord dell’Africa”.

Mi disse in quell’intervista Desmond Tutu:

Per una volta, almeno per una volta mi auguro e prego perché i cittadini europei, e i loro governanti, non si chiedano dove vogliano andare gli esseri umani che bussano alle porte, troppo spesso sbarrate, dei ricchi paesi occidentali. Io spero e prego che almeno una volta ci si chieda da cosa fuggono, e perché, e per responsabilità di chi, i loro paesi si siano trasformati in un inferno in terra.

Rispondere all’invito del Nobel per la pace sudafricano significa inoltrarsi su un sentiero impervio, fatto di verità amarissime, di responsabilità acclarate; significa mettere in evidenza l’inconsistenza europea, il neocolonialismo cinese, la penetrazione russa e lo scontro con il sovranismo Usa, per il quale America first in Africa vuol dire sostenere i propri interessi economici anche se ciò comporta creare le condizioni per la fuga di milioni di disperati. Significa battersi per una pace nella giustizia. Senza, non è pace. Semplicemente.

Quella volta a Venezia a tu per tu con Nelson Mandela

Madiba, i cent’anni dalla nascita ultima modifica: 2018-07-16T10:33:23+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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