Sergio, il talento e l’audacia dell’emigrato

Un marziano in Italia, ammirato o detestato. "Auto industry legend" in America. Le vite parallele dell'italo-canadese Marchionne nel giorno della sua scomparsa
GUIDO MOLTEDO
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[BOSTON]
La morte dell’“Auto industry legend” è tra le notizie importanti in questi giorni, in America. È in cima ai notiziari online. Se ne discute nei telegiornali. S’interrogano esperti d’auto e di finanza. Si parla della sua “formidable” capacità di ridare vita a due aziende decotte, ormai finite, facendo della somma di due debolezze una forza di tutto rispetto nel complicato mondo dell’auto. La scomparsa di Sergio Marchionne (Marciòn, come pronunciano in molti il suo cognome), o semplicemente di “Sergio”, colpisce tutti. A iniziare dai colleghi-rivali.

Bill Ford Jr., numero uno di Ford, lo ricorda così:

Sergio Marchionne è stato uno dei più rispettati leader nell’industria (automobilistica), la sua creatività e coraggiosa determinazione hanno aiutato a riportare Chrysler in salute finanziaria e a far crescere Fiat e Chrysler fino a farle diventare un automaker globale in grado di fare profitti. Sentiremo, tutti coloro che l’hanno conosciuto, la mancanza della sua straordinaria leadership, della sua franchezza, della sua passione per l’industria. I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno alla sua famiglia in questo difficile momento.

E queste le parole di Mary Sbarra, amministratore delegato di General Motors:

Sergio lascia una rimarchevole eredità nell’industria automobilistica. I nostri pensieri vanno ai nostri colleghi di Fiat Chrysler per questa improvvisa perdita.

Il tributo del sindacato dei metalmeccanici, la United Auto Workers, per bocca del suo presidente Gary Jones:

Nei giorni neri della recessione, Chrysler, Dodge, Jeep e RAM erano in pericolo. Lavorando con il Uaw, Fca [ha consentito la loro rinascita] anche se molti ne dubitavano. […] E quando la storia guarda al suo lascito alla fine, quando ha lasciato la società il sole non stava tramontando ma stava nascendo. E questo sarà ricordato a lungo.

Alla voce di Jones s’aggiunge quella della sua vice, Cindy Esrada:

Gli iscritti all’Uaw di Fca riconoscono che Sergio Marchionne ha costruito un’azienda che offre stabilità del lavoro e certezze per le loro famiglie. […] Non siamo sempre andati d’accordo. Ma per i nostri iscritti il successo della sua visione ha cambiato le loro vite.

Marchionne alimenta positivamente la narrativa americana per le stesse ragioni per cui, all’opposto, in Italia era visto un po’ come un marziano, per alcuni affascinante, per altri respingente e da demonizzare, spesso, in entrambi i casi, giudizi che andavano al di là anche del merito delle sue scelte e dei suoi comportamenti.

Non era un “americano”, come si tende a definirlo in Italia. Marchionne era italo-canadese, e anche se Toronto è molto vicina a Detroit, sono mondi molto diversi tra loro.
Come “straniero”, ha fatto fortuna in America, ed è uno dei motivi per cui è stimato. Perché, da immigrato, incarnava uno dei miti, o se si vuole dei cliché, fondanti della narrativa di un paese d’immigrati. In Italia, come si è detto, era più un handicap che un merito, il suo venire da lontano. E siccome nel nostro paese si tende a guardare anche i nostri emigrati dall’alto in basso, pure Sergio non era visto tanto bene, di sicuro non era un “plus” il suo essere figlio di un emigrato ed egli stesso emigrato che tornava a casa per riportare su l’azienda-bandiera del suo paese. Il suo era il talento, unito all’audacia, tipico di chi è meticcio, specie nel mondo di oggi.

Quando Marchionne partecipa alla cerimonia del dono ai carabinieri – è l’ultimo evento pubblico – di una Jeep ultimo modello, è il cerchio della sua vita che si chiude, lui figlio di un carabiniere poi emigrato in Canada, che consegna il frutto più importante della sua scommessa d’imprenditore, l’auto che ha ridato slancio alla moribonda Chrysler e, con lei, all’agonizzante Fiat.

Quello che s’è detto e ripetuto, commemorando “Sergio” in queste ore in America, riguarda la sua dedizione totale al lavoro 7/24, i cinque sei cellulari che lo seguivano nei suoi continui spostamenti, niente alberghi, quel poco tempo dedicato al sonno sull’aereo, una Muratti dopo l’altra, tre pacchetti al giorno. Un “workaholic”, un drogato del lavoro. E naturalmente c’è il maglione a girocollo nero. Che non era solo un vezzo, ma, specie all’inizio, una sfida all’establishment di Detroit.

Sul Wall Street Journal Holman W. Jenkins, Jr. osserva che Marchionne

non era un prodotto dei templi dell’obnubilazione di Detroit, dove si condizionavano i dirigenti a elidere le verità scomode su quel che facevano e perché, sotto la pressione di burocrati, gruppi verdi e politici ricattatori. Una volta, a un seminario alla Brookings, pressato dalle domande su che cosa non andava in Chrysler, disse che erano i bagni, “impresentabili”, inadatti a lavoratori da cui ci si aspetta di tirar fuori “un prodotto d’alta qualità… per competere internazionalmente con il meglio del meglio”.

Di Marchionne commentatori, colleghi, amici e rivali in America ammiravano il misto di abnegazione e di audacia. Considerano un capolavoro l’acquisizione di Fiat, come trampolino per poi assumere il controllo di Chrysler, ormai sull’orlo del fallimento. Fiat che pure ha una pessima reputazione in America (l‘acronimo sta per Fix It Again Tony, riparala di nuovo Tony il meccanico) aveva però la qualità, in quel momento preziosa, di produrre utilitarie, il tipo di auto che la politica ecologica di Obama, unita ai capricci del mercato energetico. L’esperienza Fiat sembrava il know how migliore per rilanciare un’azienda automobilistica in crisi in un mercato che sarebbe stato condizionato da una domanda diversa, simile a quella europea.

Non era vero. Si trattava di un escamotage, di un trucco, non sappiamo quanto condiviso con Obama. Chi non sa che gli americani, non ne vogliono sapere di auto piccole? Certo è che il fiduciario del presidente per la crisi di Detroit, Steve Rattner, ha sempre ripetuto che, non fosse stato per Marchionne, Chrysler sarebbe fallita.

Ovviamente, le utilitarie non sarebbero state la nuova bandiera di Chrysler, neppure dopo la fusione con Fiat e la creazione di FCA. Sì, la Cinquecento sarebbe stata prodotta in Nord America, ma in Messico, mentre tutto lo sforzo sarebbe stato rivolto al rilancio di un modello icona dell’automobilismo americano: la Jeep.

Sotto la leadership di Marchionne, in sette anni, Chrysler ha portato la produzione a 1,9 milioni di veicoli all’anno, un risultato che consente all’intero gruppo di progredire, anche rientrando dai prestiti cospicui ottenuti dal governo americano.

Marchionne lascia in un momento in cui tutto il comparto vive una nuova fase di profondi, imprevedibili cambiamenti, per i quali FCA sembra scarsamente attrezzata. In particolare i veicoli a trazione elettrica e quelli senza pilota.

Compito degli esperti spiegare il problema nelle sue articolazioni. Di sicuro FCA avrà bisogno di un altro visionario come Marchionne – non sappiamo se sarà Mike Manley – per misurarsi con le nuove sfide. Un visionario anche nel suo realismo ostinato di proporre ai riluttanti competitori alleanze solide tra grandi gruppi, senza le quali sarà per tutti difficile immaginare nuove frontiere. Che saranno più facilmente raggiunte, non dai Tre Grandi di Detroit, ma più da nuovi protagonisti, probabilmente provenienti – come già accade – dal mondo dell’informatica.

aggiornato h. 19, 26 luglio 2018

 

 

Sergio, il talento e l’audacia dell’emigrato ultima modifica: 2018-07-25T20:37:55+02:00 da GUIDO MOLTEDO
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