Cosa hanno significato concretamente i sessant’anni di conflitto armato in Colombia? A questa domanda ha risposto l’1 agosto la presentazione di dieci rapporti curati dal Centro Nacional de Memoria Histórica (Cnmh) su quello che è accaduto nel paese latinoamericano dal 1958 al luglio dell’anno in corso.
Il lavoro di ricerca e ricostruzione del passato di violenze è stato permesso da una legge approvata nel 2011 che ha preso il nome di Ley de Víctimas y Restitución de Tierras, condotto dal Cnmh assieme al Grupo de Memoria Histórica che si è formato nel 2008 con lo scopo di fare chiarezza su quanto accaduto durante il lungo conflitto, ed è una conseguenza dell’accordo di pace siglato dal governo colombiano con l’ex guerriglia delle Farc.
Un accordo che il 2 ottobre 2016 era stato in un primo momento respinto a sorpresa dal 50,3 per cento del popolo colombiano chiamato a esprimersi in un referendum, e che solo in seguito il parlamento di Bogotà ha definitivamente approvato, concedendo però indulgenza ai guerriglieri avvantaggiati da amnistia e grazia.
Il Cnmh ha così elaborato testi della memoria delle comunità che hanno narrato differenti esperienze di vittimizzazione, tra cui video, ricerche e analisi metodologiche. Testi che rappresentano anche metodi di approssimazione all’esperienza della guerra, e implicano la responsabilità nazionale per conoscere il passato e il dovere della memoria che appartiene allo Stato.
La ricerca, condotta negli ultimi dieci anni, rappresenta un bilancio dei contributi e delle questioni ancora aperte nel paese, tese a fornire un chiarimento storico del conflitto. E focalizza le dieci principali forme di violenza, attraverso l’interazione e la messa a confronto di 592 fonti sociali e istituzionali e 10.236 documenti e basi di dati, partendo dal presupposto del riconoscimento della pluralità di memorie esistenti. Rispondendo, per ogni fatto accaduto, alle domande di chi ne è stato l’autore, a danno di chi, quando, dove e come.
I risultati, ora disponibili alla consultazione in rete, sono stati resi pubblici martedì scorso a Bogotà, e comprendono dati relativi ad azioni belliche, attacchi alle comunità, assassinii selettivi, massacri, attentati terroristici, sequestri, sparizioni forzate, violenze sessuali, danni a proprietà e beni civili, reclutamento e utilizzazione nel conflitto di bambini, bambine e adolescenti, mine antiuomo e munizioni inesplose.
Da essi si ha la conferma di come il lungo conflitto che ha opposto la guerriglia alle forze governative colombiane, abbia in primo luogo colpito la popolazione civile, le cui vittime ammontano a 215.005, mentre, tra i combattenti di entrambe le parti, i morti si limitano, si fa per dire, a 46.813.
Oltre che costituire una delle principali conclusioni del lungo lavoro e a confermare, attraverso una cospicua mole di dati, quanto già si sapeva, dalla ricerca emerge anche che la maggioranza dei decessi è da attribuirsi all’attività delle bande di paramilitari, colpevoli d’aver causato 94.754 vittime. Minore la responsabilità della guerriglia con 35.683 morti, cui seguono gli agenti governativi, responsabili di “solo” 9.804 uccisioni.
Andrés Suárez, coordinatore dell’Observatorio de Memoria y Conflicto, l’organismo cui si deve la documentazione di 353.531 fatti, tra i quali 80.514 si riferiscono agli scomparsi, 37.094 alle vittime di sequestro, 15.687 a quelle di violenze sessuali, e 17.804 ai minori arruolati nelle formazioni militari, ha spiegato che è necessario
[…] iniziare a riconoscerci tutti per capire l’ambiente della guerra. La frammentazione confonde, distorce la verità. Bisogna anteporre alla frammentazione la compattazione, collegare tutti i pezzi.
Indirizzando al paese un appello affinché dia ascolto alla pluralità di voci che emergono dal conflitto armato. Rivolgendosi alle vittime, come a chi è colpevole. Ai civili, come ai combattenti, Suárez ha raccomandato di
[…] non aver paura per la tensione che esiste tra queste voci. Tutti hanno un pezzo di verità e bisogna gettare ponti per integrarle.
Gli ha fatto eco Gonzalo Sánchez, direttore del Cnmh, per il quale “l’uscita dalla guerra ha bisogno di memorie comprensive e trasformatrici”.
Un altro passo importante fatto a supporto della gestione della sanguinosa scia di sangue lasciata dalla più lunga guerriglia sudamericana. Non a caso tema cavalcato nelle recenti elezioni presidenziali dal rappresentante della destra Ivàn Duque, uscito vincitore nel giugno scorso dalla contesa elettorale che lo aveva contrapposto all’ex guerrigliero Gustavo Preto. Forse anche proprio per questo.
In un paese per la prima volta spaccato al seggio tra destra e sinistra, in cui temi come quelli che sono oggetto dei dossier del Cnmh continuano a trovare ancora molti nervi scoperti. Sulla questione del processo di pace con l’ex guerriglia in passato Duque ha espresso più volte la sua critica, schierandosi per il no al referendum del 2016.
Favorevole certamente a mettere fine ai conflitti, ma senza sconti di pena per chi si è macchiato di delitti di sangue, il nuovo presidente si troverà a gestire il negoziato già iniziato all’Avana con l’Eln (Ejército de Liberación Nacional), quello stesso di cui fu vice comandante il sacerdote Camilo Torres, ucciso nel suo primo combattimento, addirittura nel ’66, per mano di una pattuglia dell’esercito colombiano.
Rimane ancora la pace da fare, e il lavoro presentato mercoledì dal Cnmh va meritoriamente in questo senso. In una Colombia che rimane radicalmente divisa e lacerata, che sempre più necessita che sia messa finalmente fine a un’esperienza che, al di là del suo fardello di morte, colpisce ormai solo per il suo totale anacronismo.

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