[PARIGI]
La globalizzazione, le frontiere aperte, la mobilità europea e quella internazionale. I giovani, e non solo, vivono in un’epoca di grandi spostamenti e non sono più obbligati a rimanere nel loro paese per cercare un’occupazione. Che qualcuno possa pensare di definire il proprio percorso professionale fuori dall’Italia è sempre più frequente. Vuoi perché tutti i contesti produttivi non sono gli stessi, magari in qualche altra città è possibile realizzare il lavoro dei sogni e cominciare una carriera significativa, dove poter mettere a frutto un vantaggio competitivo che nel paese d’origine non è possibile utilizzare. Senza escludere il ritorno nel Belpaese.
Le persone hanno oggi la possibilità di allargare il loro raggio di azione alla ricerca del lavoro che più possa soddisfare i loro desideri professionali. Vanno anche alla ricerca di una maggiore retribuzione. E, poiché non è tutto oro quel che luccica, possono anche sbagliarsi: non è detto che le condizioni di vita e di lavoro all’estero siano migliori. E talvolta arriva la delusione.
Chi si sposta ha spesso coltivato a lungo il desiderio di fare esperienze altrove. Qualcuno va all’estero per perfezionare gli studi, altri per il lavoro. Molti ci sono poi rimasti perché hanno creato una famiglia.
Eppure nel dibattito italiano le varie e complesse motivazioni che si celano dietro l’emigrazione sono narrate solo in chiave negativa.
Chi lascia il paese lo fa perché è un “cervello in fuga”. Ma tutti i laureati che lasciano questo paese (e non sono la maggioranza) sono cervelli in fuga? Tutti quelli che vanno all’estero sono professionisti o trovano lavori altamente qualificati? E se non si è altamente qualificati e si lascia il paese dipende dal fatto che non si riesce a trovare lavoro in Italia? La recente vicenda della medaglia Fields Alessio Figalli ha scatenato il solito piagnisteo, che il matematico ha prontamente sopito, dichiarando di non essere un “cervello in fuga” ma solo di aver colto delle nuove opportunità.
Le motivazioni alla base dell’emigrazione sono molte. Il percorso che ciascuno degli “espatriati” compie è personale e complesso. Per molti è anche irregolare e discontinuo, con frequenti cambi di città. Così come molteplici sono le emozioni che la partenza dall’Italia suscita.
Di fronte al mosaico delle motivazioni degli espatriati, il discorso pubblico però reagisce col vittimismo, difetto di un paese troppo abituato alla de-responsabilizzazione (leggi “scarica-barile”). Lamento che oggi si arrichisce dell’attacco ai migranti che “rubano” il lavoro ai giovani italiani.
Cerchiamo di essere chiari. È vero che la “perdita” di capitale umano può essere un problema per un paese. Si pensi solo alle conseguenze per il sistema pensionistico quando vi saranno meno giovani che lavorano per mantenere i pensionati.
E molto seria è la perdita di capitale umano altamente qualificato, per l’impatto che essa può avere sui processi di innovazione.
Entrambi diventano però dei problemi gravi soprattutto quando si è incapaci di attirare nuove persone e nuovi talenti. E in questo il Belpaese eccelle.
Non attiriamo infatti nuovi talenti da altri paesi. Secondo i dati Eurostat l’Italia è il paese dell’Unione col maggior numero di stranieri che posseggono solo un titolo comparabile alla licenza media inferiore.
E soprattutto siamo ormai un paese di transito per l’immigrazione. Secondo l’analisi condotta da Mario Basevi e Cinzia Conti, ricercatori presso l’Istat,
la presenza non comunitaria in Italia, dopo almeno trent’anni di crescita – con picchi altissimi a seguito delle regolarizzazioni – sta diminuendo.
Si stabilizzano solo i flussi degli immigrati arrivati all’inizio degli anni Duemila, mentre “i nuovi flussi sono caratterizzati da una più alta instabilità sul territorio”. E senza l’immigrazione, l’invecchiamento e la bassa crescita demografica saranno un freno importante per l’economia.
La narrazione dell’emigrazione italiana è quindi profondamente deformata. E in questo vi contribuiscono le varie formazioni politiche. Prendiamo il caso della sinistra, che ha contribuito nel tempo ad alimentare questa narrazione attribuendo alla precarietà del lavoro la motivazione principale di uscita dal paese. L’immagine del laureato che lascia l’italico borgo natio per ritrovarsi in una metropoli straniera ricalca il mito del migrante di fine Ottocento che dall’Italia meridionale o dal Nordest partiva mosso dalla fame e dalla povertà. Un paragone che scalda il tenero cuore di chi rimane in Italia e vede i “nostri ragazzi” andarsene. Ma il giovane che va a Londra per fare il cameriere o a Parigi per lavorare in un negozio lo fa perché è meglio pagato o per poter mettere a frutto il proprio titolo di studio? E se fossero altre le motivazioni?
Chi è allora che oggi parte? Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 del centro studi e ricerche Idos e Confronti ci dice che tra gli italiani con più di venticinque anni che emigrano il 35 per cento ha la licenza media, un altro 35 per cento il diploma e il 30 percento la laurea (nel 2016 quindi su 114.000 italiani emigrati, 39.000 erano i diplomati e 34.000 i laureati).
È vero che rispetto a qualche anno fa sono aumentati i laureati che lasciano il paese. Ma in generale sono aumentate in Italia le persone che detengono un titolo di laurea (e un diploma): secondo l’Istat nel 2017 la quota di 30-34enni in possesso di titolo di studio terziario era pari al 26,9 per cento (39,9 per cento la media Ue), con un aumento di quasi otto punti percentuali tra il 2008 e il 2017. E nonostante questo l’Italia è la penultima tra i paesi dell’Unione.
Anche il numero dei diplomati è inferiore alla media europea: il 61 per cento della popolazione tra i 25 e i 64 ha almeno un titolo di studio secondario superiore di fronte alla media europea di 77,5 per cento.
Mentre secondo l’Istat è preoccupante l’abbandono scolastico:
Nel 2017, la quota di 18-24enni che hanno abbandonato precocemente gli studi si stima pari al 14 per cento; per la prima volta dal 2008 il dato non ha registrato un miglioramento rispetto all’anno precedente. In Italia l’abbandono scolastico precoce è molto più rilevante tra gli stranieri rispetto agli italiani (33,1 per cento contro 12,1 per cento). Tuttavia dal 2008 ad oggi, proprio tra gli stranieri si è registrato il miglioramento più consistente. Le differenze territoriali negli abbandoni scolastici precoci sono molto forti – 18,5 per cento nel Mezzogiorno, 10,7 per cento nel Centro, 11,3 per cento nel Nord – e non accennano a ridursi.
Quali sono le ragioni del composito gruppo che lascia paese? E questo è davvero difficile dirlo. Chi ha una laurea o un dottorato lascia il paese per le stesse ragioni di chi abbandona gli studi e decide di andarsene? E tutti i laureati sono persone super-preparate?
Ad oggi non esistono sufficienti prove per affermare che gli aumenti recenti dell’emigrazione italiana siano composti soprattutto da giovani e non ci sono prove solide che permettano di dire che in ogni caso sia una fuga di cervelli. Come riporta Tintori,
[…] l’Italia non esporta più laureati di altri paese sviluppati – in Europa ad esempio Germania, Francia e Regno Unito hanno più alte percentuali di laureati che lasciano i rispettivi paesi – ma il nostro paese ha piuttosto un problema di ‘brain circulation’, cioè non riesce ad attirare numeri significativi di stranieri con alti livelli di studio.
Oggi chi ottiene una laurea non può non tenere in considerazione la possibilità di andarsene dall’Italia. Ma non per ragioni legate ai difetti storici del paese (che pure contano), bensì perché è molto difficile poter immaginare di trovare il lavoro dei sogni sotto casa: se studio politiche internazionali o politiche europee davvero posso pensare di restare soltanto in Italia per mettere a frutto il titolo di studio?
E non tutte le città sono le stesse: Parigi per l’arte e la moda e i lavori connessi è meta indispensabile.
E poi oggi ci sono le opportunità per farlo, soprattutto in Europa, dove molti studenti si abituano già a viaggiare, a studiare e a lavorare all’estero.
È una visione un po’ miope quella di chi domanda che al titolo di laurea corrisponda un posto adeguato vicino a casa o almeno in Italia. Non è così per l’Italia e per molti altri paesi. Le opportunità ormai si trovano ovunque nel mondo (e spesso anche in remote). E il fatto che siano aumentati i laureati che lasciano il paese può essere anche il segno che l’Italia sta faticosamente entrando nel mercato del lavoro internazionale (e non sarebbe una cattiva notizia).
Ciò ovviamente non significa giustificare l’assenza di riforme di cui il paese avrebbe bisogno per diventare una vera terra di opportunità. Non tanto per trattenere gli italiani “nativi”, quanto per rendere il paese attrattivo per i molti altri che potrebbero venirci e che oggi scelgono altre mete.

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