Quello di cui non parleRai

La Radiotelevisione italiana avrebbe bisogno di una discussione ampia sul suo ruolo, possibilmente inserito in un più ampio dibattito sul welfare della conoscenza e della cultura in una società depauperata culturalmente e con una scuola asfittica, e di conseguenza sul metodo di lavoro e sui mezzi
ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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Il rompicapo Rai – come hanno giustamente notato molti osservatori ed analisti politici, magnificamente come al solito Filippo Ceccarelli – è qualcosa di insito in ogni nuovo governo della repubblica, per il ruolo di direzione culturale che la Rai ancora esercita nella nostra società nonostante si notino ormai alcuni cambiamenti indotti più che dalla concorrenza (Mediaset continua a tifare per un duopolio centrale generalista ma ormai tiene la posizione e non è più da tempo una alternativa), piuttosto dalle innovazioni tecnologiche delle nuove piattaforme (satellite, internet via smart tv…). E soprattutto con l’ uso diverso del tempo di fruizione, che in particolare le nuove generazioni, spingono verso una assenza di contemporaneità.

Per intenderci, se rimane sovrana la diretta per show come i talent alla “X factor” già le serie televisive vivono di luce propria, viste dai giovani più su smartphone o tablet che all’apparecchio televisivo e soprattutto con tempi sfalsati rispetto all’emissione, come evidenzia il fenomeno emergente (non solo per i giovani) del “binge-watching”, ovvero guardarsi di seguito quattro-cinque episodi di una serie o addirittura finirla tutta in un paio di giorni (o in una notte di “maratona”, perché no?!).

Le news, che per le giovani generazioni sono solo un corollario delle notizie che apprendono dagli youtuber, sono per lo più frammentate, ricavate da ciò che accompagna i social networks che frequentano e rigorosamente gratuite. Non gli passa per la mente nemmeno per un istante l’idea che si debba spendere qualche euro per acquistarle o pagarsi eventualmente il diritto/dovere di evitare le fake news e men che meno di acquistare un giornale cartaceo o vedersi un tg all’ora fissa di emissione.

Non abbiamo detto tutto il dispiegarsi della tecnologia che sta cambiando quella che sembra già archeologia definire la società dell’informazione ma già così verrebbe da chiedersi il senso della battaglia per i vertici di una cosa che appare un po’ vecchia e stantia. E tuttavia…

E tuttavia in tutti, proprio per una minima consapevolezza di questi cambiamenti si sente l’urgenza di adeguare lo strumento della Radiotelevisione italiana, ma poi si ripiega sull’idea di dominarla attraverso la nomina del Cda, e a seguire quella dei direttori dei tg e delle reti, accettando di misurarsi solo con la reale incidenza in talk show esplicitamente politici o dedicati alla cronaca, su cui affacciarsi nella convinzione che una parola “buttata lá” durante un commento sportivo o una chiosa alla ricetta regionale dello chef di turno riesca a conquistare le simpatie per la propria parte politica anche quando si è fatto di tutto, altrove, per disegnare la politica come il più immondo dei mestieri.

Ne consegue una schizofrenia in cui si disprezza ciò che si vuol conquistare e si mettono in mano strumenti che potrebbero essere definiti di welfare della conoscenza, a personaggi che dovrebbero fare tutt’altro.

Non è una storia di oggi. Parte da lontano: i professori che ristrutturano la Rai disegnandola secondo i canoni McKinsey e rompendo il legame tra costo del prodotto e scelta della direzione dei programmi, per esempio; le battaglie ideologiche per difendere questo o quel consigliere nominato non si sa come per meriti speciali che nulla conosce della tv o dei legami tra pubblicità e ruolo dei canali e dei palinsesti in ossequio al politically correct (vedi per esempio un Garimberti giornalista de La Repubblica presidente o Tobagi e Gherardo Colombo – tutte persone degnissime e grandi professionisti stimati nel loro campo – nel Cda Rai, questi ultimi indicati dal Pd, segretario Bersani, in ossequio ad una equidistanza rivelatosi poi inutile anche agli scopi di riforma della Rai, per fare un po’ di corretta autocritica), e per tacere dell’idea berlusconiana di nominare in relazione ai fini della sua Mediaset rappresentanti che nella migliore delle ipotesi concordavano programmi e investimenti Rai in rapporto al budget pubblicitario ed allo sviluppo editoriale dei suoi tre canali.

Giustamente qualcuno allora potrebbe osservare che le nuove nomine tanto male in più non possono aggiungere. Ed è forse vero.
Solo che oggi siamo a un tornante periglioso della storia delle tv e vieppiú della tv radio e informazione offerta da tutti noi Stato a tutti noi cittadini di questo Stato.

Per il combinato disposto delle caratteristiche delle nuove piattaforme tecnologiche e delle nuove generazioni, il rischio è di conquistare il dominio su un apparato a forte possibilità di irrilevanza futura tanto più se si ritiene che tutto, entertainment come informazione facciano parte di una griglia ideale di costruzione di senso comune della società civile e della sua relazione con lo Stato Contemporaneo.

La Rai avrebbe bisogno di una discussione ampia sul suo ruolo – che io credo ancora esista se inserito in un più ampio dibattito sul welfare della conoscenza e della cultura in una società depauperata culturalmente e con una scuola asfittica – e di conseguenza sul metodo di lavoro e sui mezzi.

Ci sarà occasione per entrare nel vivo di questo? Il pessimismo della ragione mi farebbe dire di no. L’ottimismo della volontà invece vorrebbe che l’opposizione convincesse la maggioranza a discutere di questi argomenti e non solo di nomine.

Quale è il piano editoriale della Rai? Intendo di tutta la Rai non dei singoli tg o di una rete? Cosa vuole essere per la società italiana?
Può tentare di accompagnare una ripresa economica e sociale del Paese stimolandolo culturalmente? Combattendo non solo il digital divide ma il cultural divide che rende la nostra società come tutte quelle ad alto tasso di sviluppo economico nel mondo così divisive e di conseguenza esposte a pregiudizi, paure, insicurezze e diseguaglianze crescenti? (e un’opposizione politica potrebbe vederci il tentativo di ricostituire un tessuto sociale dilacerato…).

Per fare questo bisogna uscire dalla condizione attuale in cui ci sono due tre programmi di inchiesta rispettabili (riserva indiana) e cultura e collaterali inviati sul satellite per garantirsi il bollino “sociale”, e un “corpaccione” identico al resto delle programmazioni private perché di fatto appaltato a società che lavorano per gli uni e per gli altri indifferentemente (e con ricatti economici più gravi di quelli politici ).

Valorizzare le energie interne, tenere aperta la finestra dell’innovazione vera (autori, sceneggiatori,scrittori, filmakers,esterni, singoli o collettivi ma indipendenti) presuppone la rottura delle conventicole e delle “terrazze” e la ripresa di una creatività vera che da sola romperebbe gli attuali equilibri che non si fondano sui partiti politici (ma chi ci crede più che esistano gli intellettuali organici che spiegavano il mondo a partire dalla produzione tv ai partiti?) ma sulle terrazze (romane e non solo), in cui fare finta di essere di questa o quella parte politica, serve solo a far carriera personale o di clan.

E quindi ridare forza di negoziazione e di scelta alle direzioni di testata (non importa da dove vengano ma che scelgano, investano, sperimentino) decidendo definitivamente di quante reti generaliste disporre e di come disporne (ne serve una, massimo due, pesanti per la pubblicità, e una che con parte della pubblicità e canone sperimenti come Channel Four in Gran Bretagna per esempio).

E poi l’informazione. Tanti e bravi giornalisti che fanno troppi prodotti diversi e piccoli ognuno confinato anche dalle ristrettezze economiche (hanno fatto certo più differenza al tempo i camioncini mobili col satellitare di Sky che i troppi numeri delle redazioni Rai, eppure l’informazione era di qualità diversa certamente).

Un investimento vero in questo settore, superando anche comprensibili paure redazionali, sarebbe fare con i numeri enormi dei giornalisti Rai una agenzia di news centrali che godrebbe di una redazione più numerosa di tante nel mondo e potrebbe fornire poi alle singole testate (da diminuire e variare) lo spunto per reportage, infotainment, spunti per serie televisive di fiction e di reality oltre che per l’informazione locale regionale ma anche a livello internazionale, dove c’è forte richiesta di “italiano” .

Il rilancio di queste produzioni farebbe svolgere alla Rai il ruolo che già attualmente svolge nel cinema, in un modo che è apprezzato da tutto il settore e sarebbe un volano di creatività per il mondo della produzione audiovisuale e informativa tout court, dal punto di vista anche economico.

Senza contare l’uso maggiore e più qualificato del materiale di archivio che non può limitarsi solo a RaiPlay o a Techetecheté ma divenire un hub sociale come è per esempio l’archivio della Bbc o quello Gaumont in Francia. E per mio conto – e, certo, gusto personale – anche la ripresa di edizioni di livello di video e libri sulla storia non solo della Rai ma del Paese stesso visto e considerato il ruolo di alcuni programmi televisivi nella storia dell’Italia moderna.

Sembra un libro dei sogni. Lo so. Ma quando ho scritto pochi giorni fa della dura necessità di fare un’opposizione politica e sociale che non sia semplice contrapposizione al voto nelle istituzioni parlamentari, a questo penso. Al rilancio del ruolo dell’opinione pubblica come luogo d’incontro sui problemi concreti e sulle possibili soluzioni future.

Parlare di Rai, ed è solo un inizio, è parlare di questi argomenti. Poi eleggetevi pure il consigliere anziano che volete!

Quello di cui non parleRai ultima modifica: 2018-08-04T18:56:00+02:00 da ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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